CONTATTAMI

Per appuntamento

La seduta può essere svolta presso il mio studio oppure online tramite videochiamata.

* campo obbligatorio

CAPTCHA
Questa domanda è un test per verificare che tu sia un visitatore umano e per impedire inserimenti di spam automatici.

Coaching Online

Coaching-Online

Coaching Online - Sull’onda della situazione scatenata dalla pandemia, tra le tante attività “migrate” online vi è anche il coaching. Dai primi riscontri informali che ho effettuato con colleghi italiani e stranieri che si occupano seriamente di coaching sembra che non vi siano particolari differenze tra il condurre il percorso in presenza e il farlo online: ciò, sicuramente, per quanto riguarda i coachee che erano già seguiti di persona e che sono poi transitati online, ma anche per i nuovi percorsi che sono nati direttamente a distanza non emergono al momento problematiche particolari.

Parlo nello specifico del coaching online condotto presso i gruppi aziendali, le Academy e le grandi imprese, e non del coaching condotto privatamente, cioè di quelle situazioni (comunque più rare) in cui un manager, un professionista, prende contatto privatamente con il coach, accollandosi il relativo costo.

Ma che cosa è il coaching online aziendale?

Da dove viene e come mai è entrato nel mondo del lavoro? Perché è richiesto? Ed esistono delle prove della sua efficacia?

Si tratta di domande semplici la cui risposta non lo è affatto. Iniziando a rispondere alla prima domanda, si può affermare che il coaching è una forma di “consulenza individuale” offerta alle persone impegnate in ruoli di responsabilità nel mondo delle organizzazioni – generalmente quadri e dirigenti, professional e manager di una certa esperienza e anzianità – con l’obiettivo di supportarle nella loro attività e in tutto ciò che la loro attività impone. In tal senso, il coaching ricade nell’ambito delle attività di formazione, sviluppo, consiglio, ma è una “formazione” assolutamente speciale, in cui la relazione è biunivoca e fortemente finalizzata.

Il coaching, o executive coaching, in realtà va ben oltre ogni genere di attività “formativa”.

Esso nasce per offrire al cliente un percorso di mutamento e di apprendimento, sufficientemente ampio, strutturato e finalizzato, guidato verso il raggiungimento di obiettivi che si collocano al confine tra la sfera personale e quella professional-organizzativa. Inoltre il coaching si basa sull’assunto che ogni persona ha un proprio potenziale di sviluppo da esprimere e che tale potenziale deve avere uno “spazio” al fine di poter essere sperimentato e infine applicato nella vita di lavoro. La necessità di offrire un supporto esperto e personalizzato è dunque intrinseca al concetto di coaching, ed è fondamentale che esso sia inserito nel contesto della riservatezza professionale che solo la deontologia professionale e l’obbligo del segreto professionale del consulente psicologo iscritto al proprio ordine professionale può garantire.

Il percorso di coaching è altresì reso possibile attraverso non uno o pochi incontri sporadici (come avviene purtroppo troppo spesso nelle classiche attività di formazione), bensì per mezzo di un programma prestabilito in cui sono visualizzabili gli step intermedi e l’obiettivo finale da raggiungere. Come affermano Angel e Amar nel loro piccolo ma prezioso volume dedicato al coaching “la filosofia del coaching si basa sull’assunto secondo il quale il cliente (il coachee) possiede un potenziale inespresso… In certo modo, questa pratica di intervento organizzativo assomiglia ad una maieutica nella quale lo sviluppo è generato dal cliente attraverso un particolare dispositivo strutturato a partire da un saper-fare e un saper-essere del coach” (Angel, Amar, Il coaching. Il Mulino, Bologna, 2005, p. 19).

In molti si sono chiesti le ragioni del successo di tale attività.

Io credo che una di queste sia il fatto che il coaching nasce e si sviluppa in un momento storico-culturale in cui ai manager ed ai professional di alto livello è richiesto un costante e sempre maggiore sforzo di adattamento propositivo e propulsivo a realtà organizzative che risultano sempre in cambiamento ed aperte al confronto ed alla competizione. Inoltre il tempo-spazio del lavoro è mutato. I tempi dell’azione organizzativa sono diventati sempre più rapidi ma non è soltanto una questione di timing: le scelte e le decisioni da assumere sempre più rischiose e difficili, e tutto ciò è collocato nel contesto dell’elevata turbolenza delle situazioni organizzative e dell’incessante spinta al miglioramento del servizio e/o del prodotto.

Anche nel contesto della pubblica amministrazione numerosi punti di riferimento tradizionali e schemi d’azione consolidati sono venuti meno e, nel contempo, sia lo Stato, sia i cittadini-utenti, richiedono, spesso, “prestazioni impossibili”, intrise come sono di velocizzazione, risoluzione di problemi complessi, presenzialismo, adesione ai valori e agli stili dell’amministrazione, raggiungimento degli obiettivi ad ogni costo per mezzo di risorse limitate (se non scarse), e capacità di adattamento repentino agli improvvisi mutamenti di scenario. In altre sedi ho evidenziato la sottile “sindrome” della solitudine manageriale (Castiello d’Antonio A., “La solitudine manageriale”. Personale e Lavoro490, 25-32) - che coglie numerosi dirigenti posti ai vertici delle piramidi organizzative, costringendoli ancora di più ad assumere rischi e prendere decisioni da soli e privi di confronto.

Altre persone che si trovano a vivere in tale situazione tendono a manifestare momenti di forte incertezza, oppure, al peggio, situazioni psicologiche di ansietà e di confusione (anche queste, naturalmente, tenute ben nascoste agli occhi del “teatro organizzativo” circostante).

Vi sono poi le cosiddette configurazioni alla John Wayne, individuabili nei soggetti super-sicuri, aggressivo-competitivi, rampanti, instancabili ed apparentemente privi di qualunque insicurezza: configurazioni che non predispongono per una prognosi favorevole sul futuro della vita (e delle prestazioni) di tali persone che possono causare con una certa facilità danni enormi all’organizzazione in cui operano. Molte di queste persone, se non supportate, finiscono con il vivere il lavoro nella forma del “workaholism” (Castiello d’Antonio A., “Ubriachi di lavoro. Il Workaholism”. Psicologia Contemporanea, 221, 21-25, 2010), ma sono anche, potenzialmente, attivatori di mobbing e di situazioni malsane.

La risposta che offre il coaching è, probabilmente, solo una delle tante risposte che sarebbe possibile offrire in una situazione simile. E non è detto nemmeno che sia la più appropriata, dato che all’orizzonte vi è sempre il rischio di trasformare un disagio socialmente diffuso e culturalmente imposto in un disagio individuale che va, in qualche modo, “trattato”.

D’altro canto, la proposta è elaborata nei termini dell’offerta di una consulenza individuale, dimensionata per rispondere alla situazione di crisi così frequentemente vissuta dai manager delle prime linee e dai professional esposti a progressive ed incombenti assunzioni di responsabilità. Si tratta di una risposta che ha le potenzialità per soddisfare le aspettative sia dell’organizzazione, sia del soggetto ponendosi, per così dire come un supporto psicologico-organizzativo offerto alla persona per vivere meglio la vita di lavoro, per convivere nel modo più positivo e felice possibile con i tanti distress che il lavoro pone ed impone.

 

Andrea Castiello d’Antonio