CONTATTAMI

Per appuntamento

La seduta può essere svolta presso il mio studio oppure online tramite videochiamata.

* campo obbligatorio

CAPTCHA
Questa domanda è un test per verificare che tu sia un visitatore umano e per impedire inserimenti di spam automatici.

Femminicidio

femminicidio

Il recente caso dell’omicidio di Vanessa Zappalà avvenuto ad Aci Trezza (Catania) a opera del suo ex fidanzato Tony Sciuto, ripropone – per l’ennesima volta – il tema della sicurezza delle donne minacciate che si rivolgono agli organi di polizia e alle istituzioni dello Stato per essere protette.

L’omicida, che minacciava, seguiva e perseguitava apertamente la vittima da tempo, era stato da lei denunciato e arrestato in flagranza dai Carabinieri. Alla richiesta della Procura dei domiciliari, il GIP aveva disposto un provvedimento più leggero (il divieto di avvicinare la persona e i luoghi in cui ella vive), ritenendo che l’uomo avrebbe rispettato la prescrizione.

Sciuto era dunque stato in carcere solo pochi giorni, dall’8 al 12 giugno. Ma Vanessa insisteva nel dire che il suo ex non si sarebbe fermato di fronte a nulla (“Ritengo Sciuto persona molto violenta e pericolosa” e, infatti, l’aveva già più volte picchiata quando erano stati fidanzati, mentre continuava a pubblicare post minacciosi in rete). E così è stato, avendo Sciuto pianificato nei dettagli l’omicidio, avvenuto di notte, per strada.

L’omicida si è poi suicidato.

Ad una vista globale si può affermare che vi siano almeno due livelli di intervento in cui, troppo spesso, le cose non funzionano.

Il primo livello è rappresentato dal momento in cui la donna si reca dalle forze dell’ordine, generalmente i Carabinieri, ed espone ciò che sta accadendo. Non sempre la donna è ascoltata con cura e presa in seria considerazione – sembra che in alcuni casi vi sia non soltanto una chiara sottovalutazione del rischio, ma anche un atteggiamento bonario e un po’ paternalistico, come a dire che la donna sta esagerando un pericolo inesistente – “Ma su, vedrà che prima o poi tutto si aggiusta, farete pace…”.

In altri casi l’intervento operativo che è seguito alla denuncia della donna è risultato, tutto sommato, un intervento soft.

Ciò avviene, ad esempio, nei casi in cui le forze dell’ordine – invece di ammonire duramente (vedi, ad esempio, il Protocollo Zeus, relativamente alla Questura di Roma) e organizzare sorveglianze speciali – chiamano il soggetto aggressore a colloquio “per mettergli paura”. Ma, a fronte di persone mentalmente non equilibrate il cui unico scopo nella vita è quello di vendicarsi sulla donna e non vedono altro intorno a loro, il “mettere paura” rappresenta un pannicello caldo che non sortisce alcun effetto.

Può ancora accadere che, una volta convocato il soggetto, questi si presenti e si rappresenti sotto le vesti di un agnellino, mostrando piena comprensione rispetto a ciò che gli viene detto e manifestando accordo con le forze dell’ordine. Anche in casi del genere, andrebbe tenuto presente che molte persone sono ben capaci di dissimulare, fino addirittura a configurarsi come soggetti abili nell’impostura.

Il secondo livello potenzialmente critico è rappresentato dalla fase in cui il soggetto compare davanti al GIP il quale deve prendere una decisione assai delicata. Quali sono i processi mentali che portano un giudice a decidere in un modo o nell’altro? Esiste uno standard, oppure ognuno interpreta le norme secondo il suo parere? Quali i gradi di libertà, di autonomia, nell’interpretazione della normativa?

Per fare un esempio: a fronte di una donna che riporta ai Carabinieri e al giudice frasi dello stalker come “Se non torni con me, ti ammazzo!” è plausibile che vi sia un’ampia gamma di reazioni da parte di chi deve prendere una decisione e valutare la gravità del caso. Queste persone delle istituzioni sono formate a elaborare decisioni sufficientemente valide e validate da dati oggettivi?

A fronte del rischio di lesioni, aggressioni all’incolumità fisica e psicologica, e addirittura alla possibilità della morte, sembrerebbe doveroso elevare il livello di prevenzione che si traduce, immediatamente, nella protezione del soggetto vittima di aggressione.

La domanda di fondo, che riguarda l’intero sistema, quindi senza dubbio i due livelli sopra detti, ma anche altri attori o istituzioni eventualmente coinvolte, è molto semplice: le persone, i soggetti istituzionali che sono chiamati ad intervenire, possiedono le competenze adatte per farlo?

Sanno distinguere i diversi livelli di gravità e di pericolosità delle narrazioni che gli sono presentate dalle donne?

Prendono seriamente in considerazione il rischio che la donna corre e – specularmente – prendono realmente in esame le caratteristiche del soggetto aggressore?

Nei casi più complessi e nei casi di dubbio dovrebbe essere costruita una rete di esperti esterni che possano essere convocati per dare un parere esperto sulla situazione in esame.

E, sicuramente, emerge la necessità di informare e formare adeguatamente i soggetti istituzionali chiamati ad intervenire, in modo che siano maggiormente consapevoli delle situazioni che gli si presentano quando una donna denuncia, annuncia, o segnala, il comportamento anomalo – violento, aggressivamente dominante, perseguitante, minaccioso, e così via – da parte di un uomo e/o di qualunque altra persona che possa avere verso di lei intenzioni ostili.

Vi è, poi, un terzo livello della questione, vale a dire le leggi che sono oggi applicabili in casi di questo genere rispetto ai reati che possono essere contestati, dalle minacce all’aggressione fino allo stalking. E’ necessario ma non sufficiente utilizzare i data-base in cui le denunce (e anche le mancate denunce…) sono rubricate. Come è da più parti detto, è necessaria la sinergia tra diversi enti: forze dell’ordine, magistratura, presidi medici, centri antiviolenza, amministrazione carceraria. Un sistema in cui la figura dello psicologo dovrebbe avere un posto di rilievo.

Il problema di fondo è che le cronache riportano i casi di fallimento di protezione della donna, e non – anche- i casi di successo. Non sarebbe una buona idea pubblicare statistiche da parte dei Ministeri competenti sui casi in cui, invece, la protezione ha dato esito positivo?

Ciò anche per un fattore molto importante. Alcune donne potrebbero essere scoraggiate dal denunciare venendo a conoscenza dai mass media della frequenza con cui la protezione non funziona e/o la donna non è presa in seria e giusta considerazione.

 

Andrea Castiello d’Antonio

 

Vedi anche il mio articolo sulla Psicologia del Femminicidio del 9 Febbraio 2016.