CONTATTAMI

Per appuntamento

La seduta può essere svolta presso il mio studio oppure online tramite videochiamata.

* campo obbligatorio

CAPTCHA
Questa domanda è un test per verificare che tu sia un visitatore umano e per impedire inserimenti di spam automatici.

I killer della meritocrazia

meritocrazia

Torno con la memoria a due episodi che possono essere considerati segnali di tale difficoltà.

Verso la metà degli Anni Ottanta ho vissuto l'esperienza di operare nell'allora direzione del personale di Alitalia: la guida della compagnia di bandiera era affidata ad Umberto Nordio e la struttura organizzativa contemplava la presenza di due amministratori delegati – che erano, per voce comune, l’uno espressione della DC, e l'altro espressione del PSI -.

In tale difficile situazione, all'interno della direzione del personale vivevano sostanzialmente due anime (questa è la mia personale ricostruzione della situazione di quei tempi, ormai lontani).

Un'anima di stampo aziendal-politico ed un'anima di stampo professional-organizzativo. Io ero stato chiamato ad occuparmi di assessment e sviluppo delle risorse umane in Alitalia dal dirigente che gestiva l'area della selezione, formazione e sviluppo, non a caso un ex consulente di una delle prestigiose agenzie di consulenza di quell'epoca: un tipico manager di stampo professionale, abituato ad operare in modo rapido, meritocratico e con lealtà verso l'organizzazione.

Gli scontri che egli aveva con gli esponenti dell'altra anima di cui si è detto erano evidenti a tutti. Per tutto il tempo in cui sono stato in Alitalia (alcuni anni) le due impostazioni - che erano impostazioni non solo professionali, ma anche etiche, sociali e di visione organizzativa - hanno continuato a confrontarsi, con alterne vicende.

Come si può immaginare, le pressioni esterne sulla selezione del personale erano fortissime, tanto che vi era una persona della direzione del personale dedicata pressoché a tempo pieno nel delicato compito di rispondere e gestire le… lettere di raccomandazione!

Una situazione di tal genere era diffusa in quegli anni in tutte le imprese di un certo spessore - ad esempio, nell'ambito di quelle che erano denominate “le partecipazioni statali" -. Ma ancora oggi, il fattore demeritocrazia non sembra voler cedere il passo.

In quel contesto, portare avanti un semplice discorso di genere tecnico e metodologico era difficile - si veniva etichettati come dei "filosofi" della gestione del personale, sottolineando che non vi erano un sufficiente "aziendalismo" e una sufficiente attenzione agli aspetti pratici e politici della situazione -.

Così fan tutti, e - secondo l'anima aziendal-politica - tutti si sarebbero dovuti attenere a certe regole – naturalmente non scritte - della vita della compagnia di bandiera (per meglio dire: del "palazzo" della compagnia di bandiera che, allora, era incarnato nel famoso grattacielo dell'EUR, a Roma).

Chi non era d'accordo veniva visto come una persona che "si mette di traverso", "rema contro", "crea problemi".

Ricordo la fatica che si dovette fare per convincere l'azienda a applicare metodologie di selezione diverse, gestite "in casa", cosa che avrebbe tolto in un solo colpo la gestione delle stesse a società di consulenza esterne.

Il fatto concreto, supportato da ricerche e studi, che la compagnia avrebbe risparmiato una ingente quantità di denaro, utilizzando inoltre tecniche migliori, non era da solo sufficiente a convincere colleghi e "piani alti" dell'organizzazione a portare all’interno alcuni iter di selezione del personale.

Simili situazioni ricorrevano anche nelle altre aree, ad esempio nella formazione, il cui budget assai elevato faceva gola a numerose agenzie di consulenza che - nei modi che si possono immaginare - premevano per ottenere almeno "una fetta" del business.

Gli interessi incrociati sottostanti erano evidentemente talmente forti che anche a fronte di palesi fallimenti - ad esempio, vi fu un'ampia protesta degli addetti di scalo in riferimento a corsi di formazione vissuti come prescrittivi e del tutto inutili basati sul modello dell’assertività che condussero anche ad una manifestazione in cui furono mostrati cartelli e distintivi con la scritta Assertività? No, grazie! - si decideva di continuare e proseguire nel medesimo modo.

Un secondo episodio che mi torna in mente è collocato nella prima metà degli Anni Novanta, in un istituto di credito di medie dimensioni dell'Italia centrale.

Per merito della lungimiranza del direttore del personale - che proveniva, non a caso, dall'esterno e da altri contesti socioprofessionali - si era dato vita ad un piano coerente di valutazione del potenziale, formazione professionale e manageriale e sviluppo delle prestazioni e del potenziale. Un intervento pluriennale che coinvolse in pratica l'intero personale della banca, attivando anche nuovi sistemi di selezione di ingresso e nuove politiche retributive.

Trascorsero molti anni nei quali l'attività che svolgevo – in tal caso come consulente - proseguì senza grandi problemi, sponsorizzata in prima persona dalla direzione generale e sostenuta da un buon team di direttori centrali i quali potevano toccare con mano il miglioramento che essa produceva (anche sui conti economici dell'istituto, naturalmente!).

Il sistema di gestione e sviluppo delle risorse umane era dunque stato basato su una logica squisitamente meritocratica, sostenuta anche da un monitoraggio attento circa a qualità del funzionamento del sistema e gli output previsti. Ma nella tipica lotta di potere interna - che poco aveva a che fare con il merito - per una serie complessa di questioni il direttore del personale decise di lasciare l'istituto: il sistema di gestione e sviluppo del personale fu così preso in mano da colui che era stato il suo vice, un signore di una certa età, che si era dedicato soprattutto a questioni di contenzioso con il personale e che era una tipica espressione dell'establishment della banca e del suo territorio.

Al suo fianco fu nominato un dirigente che decenni prima era stato a capo della formazione del personale.

Ebbene, il "combinato disposto" dell'attività - ma prima ancora, direi, della mentalità - di questi due signori ebbe come esito l'impantanamento totale delle funzioni attivate, il blocco dei sistemi e il ritorno ad una situazione quo-ante, tipica di una banca degli Anni Sessanta.

Il "nuovo" capo del personale, di fronte a idee e proposte di attività per nulla sconvolgenti, era solito affermare

Il personale non è ancora pronto per questo!

Con il che, ogni potenziale attività era bloccata prima ancora di essere sperimentata. Il suo collaboratore diretto, responsabile della formazione, non ebbe altra migliore idea che riprendere in mano la formazione lì ove l'aveva lasciata lui stesso, cioè un paio di decenni prima…

Si può solo immaginare quale idea innovativa poteva sostenere i "nuovi" piani di formazione e sviluppo ripresi tali e quali da questa persona, estremamente contenta di Non aver buttato via nulla! di ciò che aveva fatto nei remoti tempi degli Anni Sessanta. 

La meritocrazia, proprio come la democrazia, non può mai essere data per acquisita una volta per tutte, e deve sempre essere difesa e gestita con molta cura.

Anche nei casi migliori nei quali non vi sono interessi più o meno leciti che premono contro l'impostazione meritocratica, sono sufficienti la mentalità, il modo di pensare, l'idea-di-azienda di uno o più persone che hanno il potere di prendere decisioni sulla gestione delle risorse umane, per bloccare qualunque ipotesi di moderna, normale, etica e giusta gestione del personale.

Già: la meritocrazia ha in se stessa una sana e forte idea di giustizia e di equità sociale, un'idea che nulla ha a che vedere con l'egualitarismo, ma nemmeno con la competizione selvaggia di tutti contro tutti. E' troppo comodo e molto semplice gestire il personale trattando tutti allo stesso modo, oppure lasciando che le persone si scannino a vicenda per un premio finale!

 

Chiudo queste note specificando un dettaglio importante.

Quanto sopra è tratto dal mio libro “PSICOPATOLOGIA DEL MANAGEMENT”, pubblicato con Franco Angeli nel (lontano) 2001.

Sembra tutto ancora molto attuale…

 

Andrea Castiello d’Antonio

psicopatologia del management