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Già qualche tempo fa, il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco segnalò che in Italia vi era il 27,6% di laureati contro il 40% di media europea.
La relazione di Visco continuava poi su tematiche limitrofe affrontando il capitolo istruzione: tra gli obiettivi, il cablaggio con la fibra ottica di scuole e università, e la dotazione di infrastrutture per la didattica a distanza. Ma anche l’aumento della quota di laureati e diplomati (di cui l’Italia è fanalino di coda in Europa), il contrasto all’abbandono scolastico e la riqualificazione-formazione dei docenti.
Ora arriva il 9° Rapporto sul BES - Benessere Equo e Solidale dell’ISTAT che segnala il crescere di una serie di disagi tra i giovani, in buona parte causati dalla pandemia, dalla didattica a distanza, e da tutto ciò che ha comportato il rarefarsi delle relazioni sociali.
Emerge che tra i giovani nella fascia di età tra i 15 e i 29 anni l’Italia ha il disdicevole primato di essere la nazione con maggior numero di NEET: il 23.1%.
Nel complesso, tutto ciò che sta accedendo tra i giovani conduce verso un impoverimento dello spettro complessivo delle capacità, delle abilità e delle competenze che dovrebbero derivare non solo dai contesti socio-educativi, ma anche da una proiezione/motivazione verso il futuro.
Tra le diverse competenze in fase di affievolimento sono coinvolte anche quelle cosiddette “trasversali”, così importanti nel nostro Paese, anche perché sostanzialmente ignorate fino a poco tempo fa. Competenze in decrescita che si accompagnano a un livello globale di “felicità” o benessere interiore in diminuzione, probabilmente legato anche alla difficoltà di costruire legami interpersonali solidi (come le amicizie, e le appartenenze a gruppi di pari ben identificati).
L’assenza di vere prospettive di lavoro continua poi a spingere molti giovani a lasciare le aree del Sud Italia in cerca di migliori opportunità, nonostante il remote working – un fenomeno che si accompagna ai ripetuti scandali nel mondo dell’accademia che sono di recente emersi in diversi contesti universitari del Sud.
Il tema dei NEET – praticamente 1 su 4 in quella fascia di età! – appare davvero allarmante. Cosa faranno nella vita questi giovani? Quali lavori riusciranno ad abbracciare? Oppure in tanti, in troppi, sperano di tirare avanti, di tirare a campare, tra sussidi, lavori in nero, sostegno familiare e utilizzo di risorse accumulate da genitori e nonni?
Rispetto al numero dei laureati l’Italia è oggi posizionata sul 26.8% a fronte dell’attuale media europea del 41%, ma con punte che vanno oltre il 50% in alcuni Paesi virtuosi.
Che il numero in termini assoluti sia drammaticamente inferiore – praticamente la metà rispetto ai Paesi migliori! – è incontestabile. Ma vi è una considerazione da fare, andando oltre: di quali laureati abbiamo bisogno?
Il problema è avere molti laureati nelle discipline “sbagliate” – cioè a sbocco occupazionale ridotto, o pressoché nullo – e pochi laureati nelle discipline che sono richieste dalle aziende private e dal mondo della PA. Ma il problema è anche avere molti laureati “generalisti”, con diplomi in discipline ad ampio raggio, ipoteticamente buone per molte occasioni e, di fatto, poco utilizzabili. E, ancora, avere pochi laureati il cui livello di lingua inglese sia minimamente soddisfacente. Per non dire di quei laureati che “si sono chiusi in casa” per studiare al massimo delle loro forze, perdendo – o non sviluppando affatto – quelle capacità “trasversali” che oggi sono imprescindibili nel mondo del lavoro: saper comunicare, interagire, lavorare in team, esporre le proprie idee in modo efficace, e così via.
Ancora oggi esistono corsi di laurea che non prevedono una selezione iniziale, mentre sono state aperte università e sono stati disseminate sul territorio a man bassa facoltà il cui vero scopo è dare le cattedre ai docenti, producendo disoccupazione e sotto-occupazione intellettuale.
Ciò in totale assenza di un minimo di programmazione orientata a fornire al Paese, come “sistema”, le competenze attualmente richieste e quelle prevedibilmente richieste nel giro dei prossimi anni.
Vi sono poi molti luoghi comuni. Un esempio: si accusa genericamente la scuola e l’università di essere troppo lontane dalla “pratica”. Ambienti “teorici”, mentre quando si lavora c’è bisogno di concretezza. Una critica giusta, in molti casi, ma non sempre. E’ proprio negli anni della formazione che si devono studiare materie e argomenti che, successivamente – se le cose vanno bene… cioè se si inizia a lavorare intensamente – non si avrà più il tempo di studiare. Sta alla responsabilità e all’intelligenza della persona fare (almeno!) lo sforzo di unire teoria e pratica, ciò che ha studiato con ciò che deve fare nel lavoro. L’università non può diventare una sorta di “pre-apprendistato” in vista del lavoro.
Andrea Castiello d’Antonio