CONTATTAMI

Per appuntamento

La seduta può essere svolta presso il mio studio oppure online tramite videochiamata.

* campo obbligatorio

CAPTCHA
Questa domanda è un test per verificare che tu sia un visitatore umano e per impedire inserimenti di spam automatici.

IL MANAGER IN CRISI E LA PSICOTERAPIA (quarta parte)

IL MANAGER IN CRISI E LA PSICOTERAPIA

Nel momento in cui il potenziale paziente si reca al primo colloquio dallo psicoterapeuta si apre la fase iniziale dell’incontro.

I primi colloqui con il manager in crisi possono rivelare molto delle attese del potenziale paziente, facendo anche ben visualizzare la maggiore o minore disponibilità della persona nel voler intraprendere un cammino psicoterapeutico.

In questa situazione, come in ogni altra situazione di primi colloqui, ciò che è necessario fare insieme al consultante è stabilire il quadro di insieme: in altre parole, procedere ad una diagnosi dello stato attuale della persona.

 

Si tratta di una fase delicata alla quale spesso il manager in crisi si presta malvolentieri, e ciò per una serie di motivi:

l'essere messo sotto esame, per così dire, non rappresenta una situazione per lui congeniale, così come la sensazione di «stare perdendo tempo» nel rispondere a tutte quelle domande o, peggio ancora, nel sottoporsi a test apparentemente inutili o incomprensibili.

Può anche capitare di avere un netto rifiuto a rispondere ai test psicologici qualora essi siano proposti, cosa che naturalmente non indica un buon inizio nel rapporto, ma l’orientamento del paziente va comunque rispettato, dopo averlo discusso e chiarito.

 

Una volta effettuata la fotografia dinamica della situazione esistente ed in divenire della persona si apre la rappresentazione del cammino terapeutico sotto forma di dare conto al potenziale paziente di cosa e come si potrà fare nel corso del tempo.

Anche in tale situazione il paziente-manager in crisi rappresenta spesso formidabili ostacoli e condotte difensive: le attese, e talvolta le pretese, sono quelle di sapere fin dall'inizio quanto tempo ci vorrà per completare il cammino e di avere in buona sostanza una sorta di assicurazione preventiva circa l'esito finale.

Due attese che, nella maggior parte degli indirizzi psicoterapeutici oggi esistenti, sono destinate a rimanere senza risposta.

 

La terza domanda che nasce in unione alle due precedenti riguarda il «cosa» si farà.

Non a caso si tratta di richieste che tendono a tenere sotto controllo il processo psicoterapeutico anche perché un timore diffuso in tale genere di persone è proprio quello di «mettersi nelle mani» di uno sconosciuto, essendo privi del necessario controllo sul come e dove si sta andando.

Da questo punto di vista si comprende perché molti manager in cerca di aiuto nutrano più di una diffidenza verso gli psicoterapeuti che sono restii a dare informazioni sul progetto psicoterapeutico e che si oppongono a porre obiettivi specifici della terapia.

 

La classica situazione di cui si legge nei libri che vede il paziente iniziare un «lungo e faticoso cammino» senza sapere dove questo lo condurrà e quali saranno i risultati concreti affascina molto poco tali persone e, anzi, in genere li fa fuggire a gambe levate!

 

Alle psicoterapie dinamiche di lunga durata e prive di indicazioni di orientamento si accompagnano le psicoterapie di medio e breve termine - queste ultime, focalizzate sul raggiungimento di precisi obiettivi terapeutici e con un numero predeterminato di sedute.

È poi molto probabile che i manager in crisi non si orientino troppo volentieri verso le psicoterapie di gruppo, preferendo lavorare nella dimensione privata della relazione duale.

 

Oltre all'orientamento metodologico della scuola alla quale il singolo terapeuta fa riferimento, un fattore fondamentale risiede proprio nella personalità del terapeuta e nel suo peculiare modo di gestire il setting di cura.

Uno stile orientato a un buon livello di risposta e di interlocuzione diretta appare preferibile - per questo genere di pazienti - ad uno stile tendenzialmente distaccato, asettico o caratterizzato da lunghi silenzi.

Qui si apre il tema della scelta dello psicoterapeuta più adeguato – vedi il mio recente libro sull’argomento:

https://www.youtube.com/watch?v=T6ZKYV7_JvI

 

Anche se il rischio può essere quello di chiamare il terapeuta ad un coinvolgimento immediato e a rispondere punto su punto alle richieste esplicite che gli sono proposte, vi è da considerare che a fronte di setting meno rispondenti il paziente può decidere di abbandonare la terapia e andare alla ricerca di qualcosa di maggiormente finalizzato e - nella sua percezione - di più concreto.

 

Ma al di là di tali considerazioni vi è un fattore specifico inerente alle competenze dello psicoterapeuta al quale credo sia importante dare spazio: il terapeuta che prende in cura il manager in crisi dovrebbe possedere conoscenza e competenza professionale in relazione a ciò che accade nel mondo del lavoro e, specificatamente, nelle relazioni organizzative, riuscendo così a comprendere il contesto nel quale si muove il suo paziente e le caratteristiche delle dinamiche organizzative.

 

Ciò significa avere la capacità di considerare gli elementi realistici della vita organizzativa - ad esempio le relazioni tra colleghi e con i superiori - sapendo cosa significa la relazione di leadership e di followership, come si declinano gli stili manageriali, quanto può influire il clima organizzativo e la cultura d'azienda.

Appare in sostanza necessario possedere competenze di psicologia delle organizzazioni sulla base delle quali visualizzare e comprendere le dinamiche socio-organizzative nelle loro dimensioni fisiologiche ed eventualmente patologiche.

 

Privo di tale competenza specifica inerente agli aspetti meno visibili del mondo del lavoro, il terapeuta può cadere facilmente in errori di valutazione, primo fra tutti considerare il proprio paziente-manager avulso dal contesto organizzativo nel quale vive, vedendo in lui, e soltanto in lui, la causa dei disagi che manifesta.

 

Si tratta di un errore di attribuzione causale noto agli psicologi sociali in base al quale si sottovaluta l'ambiente di riferimento e le pressioni sociali che da esso emanano, vedendo, per così dire, il «difetto» nella personalità del soggetto e non anche nelle condizioni situazionali nelle quali esso si trova a vivere.

 

È da ricordare che vi sono psicologi che ritengono predominante e fondamentale l'influenza del contesto sociale - ad esempio Philip Zimbardo, con il suo «effetto Lucifero» - cadendo però in tal modo nell'errore opposto, cioè, sottostimando le variabili di personalità e le risorse peculiari del soggetto.

 

Dunque, il manager-in-crisi ha necessità di una risposta specifica alle proprie problematiche, una risposta ben dimensionata da parte dei terapeuti i quali, a loro volta, dovrebbero possedere competenze professionali allargate al fine di riuscire a comprendere al meglio la condizione esistenziale del paziente.

 

E se guardiamo la tematica dal punto di vista del potenziale paziente, si deve mettere in guardia chi ricerca un aiuto psicologico dal voler ottenere tutto e subito, pretendendo riposte certe e garanzie preliminari che sono impossibili da offrire.

 

Andrea Castiello d’Antonio

 

Gli articoli precedenti sull’argomento sono reperibili nel mio sito web www.castiellodantonio.it