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Guardando alla gestione e sviluppo del capitale umano
tra le tante modalità costruttive che si possono realizzare da parte del management vi è la COSTRUZIONE DELLA FIDUCIA RECIPROCA.
Non a caso, uno degli aspetti che emerge con una certa costanza nell’ambito delle problematiche della disaffezione al lavoro è la questione della “fiducia”, cioè del senso di potersi fidare ed affidare che il collaboratore nutre nei confronti dell’impresa in cui opera e dei singoli manager che la dirigono.
https://www.castiellodantonio.it/la-disaffezione-lavorativa
L’importanza del sentimento diffuso di fiducia, o di “fiducia organizzativa” è ormai acclarato ed è stato confermato proprio negli ultimi decenni, vale a dire nel periodo storico in cui il mondo del lavoro si è dovuto confrontare con l’incertezza organizzativa, con la volatilità dei mercati e dei business, con l’insicurezza del lavoro, ma anche con le grande sfide della pandemia e della guerra.
In senso generale il sentimento di fiducia verso qualcosa o qualcuno sta ad indicare che ciò che ci si aspetta sarà confermato, che il mondo risponderà in modo previsto e prevedibile alle attese.
In particolare, esso si nutre della congruenza tra parole e fatti, tra dichiarazioni e comportamenti organizzativi, tra prese di posizione, decisioni manageriali e accadimenti che via via si manifestano nella vita organizzativa.
Ancora più nello specifico la fiducia interpersonale nel lavoro sta ad indicare che tra le parti in causa nessuno si attende di essere tradito, colpito nelle proprie (personali o professionali) aree di debolezza, posto in difficoltà, ignorato nei propri bisogni e motivazioni, o nelle proprie richieste e difficoltà.
Ad esempio, non ci si aspetta di essere colpiti da azioni decisamente ostili e da atti di aggressività deliberata
Si tratta di una sorta di mutua confidenza reciproca in cui le azioni che sono poste in essere non intaccano l’identità e la dignità umana e professionale dei soggetti. Non si parla certamente di dover costruire un ambiente di lavoro idilliaco o teorico, bensì di lavorare “nei fatti” e attraverso i comportamenti osservabili in modo che le persone siano consapevoli della situazione in cui si trovano – quindi anche dei suoi lati problematici – ma sufficientemente certi di non essere, ad esempio, lanciati (o lasciati) allo sbaraglio, manipolati, o posti in improvvise situazioni di difficoltà.
Si tratta, inoltre, di assegnare e far comprendere il senso e il significato del LAVORARE-INSIEME, in modo che le persone, oltre a “fare”, sappiano bene anche “perché” stanno facendo ciò che devono fare https://www.castiellodantonio.it/purpose-and-meaning-workplace
Il sentimento di fiducia è anche una delle componenti dell’INGAGGIO, del sentirsi parte attiva di un tutto. L’engagement è una condizione complessa che non si può sperare di “creare” dal nulla, né dall’oggi al domani. È, dunque, una condizione di valore e ambita dai capi, ma non semplice da costruire. Non casualmente si tratta di un termine impiegato spesso in ambito militare sia per indicare qualcosa di molto preciso (le cosiddette “regole di ingaggio”) sia per denotare l’impegno e la “forza” d’impatto globale delle truppe. Ed è a questo secondo significato che qui si può fare riferimento.
In qualche modo l’idea di avere dei lavoratori “ingaggiati” si muove sui binari antichi di ciò che nell’ambiente militare si definiva (e si definisce ancora oggi) “il morale” della truppa – anche se può sembrare qualcosa di molto distante dall’odierno mondo del lavoro.
Con l’idea del “morale” dei soldati – che doveva necessariamente essere “alto” – si intendeva qualcosa di generico, ma comunque palpabile nel contesto sociale dai superiori: qualcosa di riscontrabile sulla base del comportamento effettivo dei soldati (ciò che in azienda è rappresentato dalla “prestazione professionale”).
Il motivo per il quale era (ed è) così importante “tenere alto il morale” dei soldati è che questo pur generico fattore si traduce, nei momenti cruciali, in una maggiore capacità di offesa o di difesa da parte dei singoli soggetti e, soprattutto, da parte dei raggruppamenti di più soggetti: cioè, da parte di quelli che nel mondo del lavoro si definiscono i team, i gruppi di lavoro.
Un morale alto conduce i soldati a reagire con maggiore prontezza, ad essere più efficaci e combattivi, sulla base della convinzione interna di “potercela fare” e di raggiungere l’obiettivo indicato. Si tratta, pertanto, di una variabile tipicamente “soft” che ha, però, un notevole impatto sui risultati concreti e visibili dell’azione. Una variabile che non a caso è stata ri-scoperta negli anni Ottanta sotto le denominazione di self-efficacy (auto-efficacia).
Talvolta, nel mondo del lavoro, si tende a voler raggiungere il risultato concreto e misurabile senza passare attraverso la gestione degli elementi meno visibili e operativi dell’ambiente e della dinamica socio-organizzativa del rapporto di lavoro.
Non a caso sopravvive un modello di leadership autoritaria – di cui si avrà modo di parlare nel corso dei prossimi contributi – che rappresenta le negazione di tutto ciò che emerge nel lavoro come caratteristiche e lineamenti sottili, poco percettibili, ma potentemente influenti. Ma oggi sappiamo che la leadership autoritaria è utile, e soprattutto “funziona”, soltanto in certi, specifici ambienti e situazioni di lavoro, regolati da norme particolari, o sorretti da un consenso autentico e generale dei membri che li popolano.
Negli altri casi essa rappresenta, più che altro, un vero e proprio boomerang, soprattutto quando – oltre al carattere autoritario e repressivo – si associa quella ineffabile “qualità” umana che va sotto il nome di stupidità
https://www.castiellodantonio.it/la-stupidit%C3%A0-e-le-sue-molte-sfaccettature-0
Andrea Castiello d’Antonio