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L’AGGRESSIVITA’ DISTRUTTIVA NEL LAVORO E LA SUBDOLA “ARTE” DI METTERE IN DIFFICOLTÀ LE PERSONE

aggressivita distruttiva

Credo che sia un grave errore, da parte di coloro che si occupano professionalmente di malessere e violenza nei luoghi di lavoro, puntare sempre e tutto sulle fattispecie del Mobbing, dell’harassment e dello stalking.

Soprattutto nel momento in cui si parla di Mobbing si finisce con l’ascoltare delle proverbiali banalità che non rendono conto delle complessità dei fenomeni di sopraffazione, brutalità e aggressione nei luoghi di lavoro.

 

Infatti, vi sono innumerevoli forme di violenza sul lavoro che sfuggono a precise denominazioni ma che sono altrettanto gravi e dannose per coloro che le subiscono.

 

Se si potesse identificare un fattore ampio, alla base di tante forme di aggressività distruttiva nel lavoro, credo che si dovrebbe puntare l’attenzione su ciò che potremmo definire la subdola arte di mettere in difficoltà le persone – e accanirsi contro di esse.

 

Prima di osservare più da vicino questo variegato mondo può, comunque, essere utile richiamare le manifestazioni del Counterproductive work behavior perché esso comprende un ampio spettro di comportamenti e di azioni che creano danno sia alle persone, sia all’organizzazione nel suo complesso.

 

Ritorsioni, vendette, abusi emotivi, pressioni relazionali sono solo alcuni esempi di comportamenti che possono variare da condotte gravi e sistematiche, a situazioni episodiche e, quindi, apparentemente più lievi, ma sempre e soprattutto ambigui.

Condotte che paiono rientrare in quella sorta di normale inciviltà agita nel luogo di lavoro.

 

I maltrattamenti si attuano quasi sempre (ma non sempre) sulla base di uno squilibrio di potere fra le parti in causa e qui emergono quelle che io definirei le figure della perversione, cioè alcune tipologie di aggressori, ognuna con le proprie modalità di ricerca della vittima e di volontà di sopraffazione.

 

Oggi che il mondo del lavoro contempla in misura sempre maggiore la presenza di soggetti di diverse etnie, religioni, provenienze culturali e territoriali, ma anche persone che appartengono alla comunità LGBTQ+, la possibilità di comportamenti di aggressione psicologica simili a quelli che gli inglesi definiscono gli hate-crimes (reati motivati da ostilità per motivi religiosi, razziali, di genere e disabilità) da parte della varietà dei bulli organizzativi tende ad aumentare, scatenandosi come sempre contro il diverso, l’estraneo, l’altro-da-sé.

 

I comportamenti abrasivi e offensivi della dignità della persona, ad ampio spettro, possono essere ravvisati nelle situazioni in cui l’aggressore si esprime con battute sessiste e discriminatorie, mettendo in atto quella varietà di atteggiamenti di crudeltà morale e oltraggio alla persona che vanno sotto le definizioni di Catcalling, Victim blaming and shaming, Body shaming.

 

Ma i comportamenti di violenza morale nel lavoro, a mio avviso, potrebbero essere anche differenziati nelle due seguenti classi:

 

violenza per eccesso di contatto (come nelle molestie sessuali di genere fisico) 

 

violenza per assenza di contatto, come nei casi in cui si ha a che fare con un soggetto alessitimico o con un collega o un capo freddo, distaccato, gelido, impersonale e, al contempo, autoritario.

 

Alcune di quelle che potremmo definire le regole di base delle molteplici forme di violenza organizzativa soprattutto se perpetrate da una posizione di potere, sono le seguenti:

 

non ammettere mai un errore o un momento di debolezza;

 

non lasciare spazi a dubbi o ad alternative di soluzione dei problemi;

 

non riconoscere mai che in coloro che non sono alleati o sudditi vi sia qualcosa di positivo;

 

non accettare la benché minima colpa o responsabilità, ma anzi proiettarla e ribaltarla costantemente su altro/altri;

 

prendere di mira un soggetto alla volta, o un gruppo di soggetti ben delimitato, fino all’annientamento;

 

rendere la vittima totalmente colpevole di ogni cosa che non va bene o che crea intralcio;

 

avere fiducia che una grande bugia convincerà molto meglio gli interlocutori che dei piccoli inganni.

 

E, per concludere, mettere sempre in pratica la regola aurea della persuasione:

 

ripetere con convinzione e senza tentennamenti l’idea pur irrealistica o palesemente falsa che si vuole far passare perché insistendo la maggior parte delle persone finiranno per crederci (un sistema di convincimento ben noto ai dittatori, oligarchi e autocrati sparsi oggi nel mondo).

 

Come ha insegnato Alice Miller nel corso di numerose sue opere dedicate alla violenza nei contesti familiari, le violenze si accompagnano quasi sempre a meccanismi di copertura e di anonimizzazione in base ai quali il soggetto-bersaglio è obbligato, interiormente, a non rendersi conto di ciò che sta accadendo, spesso dissimulando egli stesso le proprie reazioni emotivi difensive o addirittura colludendo con l’aggressore.

 

Osservando situazioni di tal genere dal punto di vista organizzativo si può ben parlare di una vera e propria deumanizzazione organizzativa.

 

 Si tratta di una condizione che diviene ancora meno tollerabile nel momento in cui la persona ha la percezione di essere trattata come una sorta di risorsa materiale, un mezzo (sostituibile) per raggiungere fini, un meccanismo dell’ingranaggio o, come si diceva un tempo, semplicemente un numero!

Il fenomeno della deumanizzazione è purtroppo ben noto in altri campi del sapere e della vita umana – ad esempio nelle guerre, nelle situazioni di coercizione, nell’atteggiamento verso alcune minoranze o taluni soggetti disagiati o gruppi discriminati – ed è stato differenziato nelle due tipologie di deumanizzazione animalistica e meccanicistica.

 

Nel momento in cui si attuano da parte degli aggressori condotte violente la persona-vittima può dunque essere spinta a considerare sé stessa in modo passivamente esecutivo, come una macchina, ma anche a dubitare della legittimità di esprimere un pensiero, un’opinione, avvicinandosi così alla figura animalesca priva di coscienza.

 

Pur se situazioni di tal genere recano un enorme danno non solo alla persona che ne è vittima ma anche all’efficacia-efficienza dei processi di lavoro, nondimeno gli aggressori possono insistere nella loro condotta ribaltando proprio sulla vittima la colpa del rallentamento dei processi o delle imperfezioni dei risultati ottenuti nel lavoro.

 

Colpevolizzando la persona precedentemente violentata si chiude, dunque, il cerchio della vera disumanità che è, tutta, nelle mani dell’aggressore, dell’inciviltà del picchiatore morale.

 

Andrea Castiello d’Antonio

 

Articolo tratto, con modifiche, dal mio libro:

“L’AGGRESSIVITÀ DISTRUTTIVA NEL MONDO DEL LAVORO.

IL MOBBING E LE ALTRE FORME DI VIOLENZA ORGANIZZATIVA”

 

Capitolo: La subdola “arte” di mettere in difficoltà le persone

 

(Editore HOGREFE, Firenze, dicembre 2024)

 

https://www.hogrefe.it/it/catalogo/volumi/manuali-di-psicologia/laggressivita-distruttiva-nel-mondo-del-lavoro-il-mobbing-e-le-a/