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L’UMANITÀ IN TEMPI BUI
Men in Dark Times – tradotto in italiano con L’umanità in tempi bui – ha visto la luce nel lontano 1968; si tratta di un testo che ha avuto numerose traduzioni italiane da parte di diversi editori, traduttori e curatori. Nel nostro caso l’opera, edita dalla casa editrice Mimesis di Milano, è tradotta ed introdotta da Beatrice Magni e si presenta come una raccolta di saggi su scrittori e filosofi (tra questi: Erich Lessing, Walter Benjamin, Bertolt Brecht, Hermann Broch e Isak Dinesen, cioè la baronessa danese Karen Christentze Dinesen, nota con lo pseudonimo di Karen Blixen).
In un periodo come questo che stiamo vivendo già da alcuni anni, e che sembra espandersi oltre l’anno in corso, il 2024, questa raccolta di saggi sull’esistenza umana e le oscurità che la possono permeare appare particolarmente attuale.
Di conflitto in conflitto, di guerra in guerra, si può richiamare una citazione da un saggio di M. Kesting che propone l’autrice nel suo commento a Bertolt Brecht: “la grande Cartagine combatté due guerre: era ancora più forte dopo la prima, ancora abitabile dopo la seconda. Dopo la terza non la si riusciva più nemmeno a trovare” (p. 251).
Hannah Arendt è certamente molto nota per le sue ampie e profonde riflessioni sul potere, sui regimi totalitari, sulle mille facce della politica e dei suoi meccanismi, tematiche che sono state affrontate dal punto di vista filosofico e che incidono profondamente su molti aspetti concreti della condizione e della vita umana: basti ricordare, l’analisi delle fragilità e delle complessità della persona, sia essa oppressore o oppressa, di fronte alla distruttività e alla barbarie che si scatenano nei tempi peggiori, nei tempi bui, nelle collettività. Del resto, il concetto di banalità del male è diventato un faro che illumina ogni situazione in cui la dimensione della umanità e della dignità umana sembrano completamente svanire (il testo di Hannah Arendt, da cui l’espressione la banalità del male, è del 1963: Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil).
In contrapposizione, o in associazione, con i rilievi critici dell’era contemporanea, l’autrice esalta la possibilità dell’essere umano di partecipare attivamente alla vita associata della propria comunità: quella partecipazione politica che offre la possibilità al cittadino di far sentire la propria voce ma che, troppo spesso, può essere limitata e bloccata dai meccanismi della gestione del potere centrale, dai meandri delle burocrazie e dalla precarietà delle democrazie, sempre insidiate dal totalitarismo o da quelle forme meno evidenti di restrizione progressiva delle libertà democratiche che oggi appaiono così diffuse nel mondo.
Note, anche queste, particolarmente attuali nel momento in cui i conflitti tra nazioni si giocano sui terreni delle guerre ibride che hanno al loro interno la guerra psicologica (o guerra cognitiva) combattuta anche sui tavoli multiformi della disinformazione.
Ecco, quindi, emergere la critica alla modernità – “ciò che conta è che in società ognuno deve rispondere alla domanda riguardante che cosa (what) egli sia – in opposizione alla domanda su chi (who) egli sia – quali siano il suo ruolo e la sua funzione” (p. 177) e, insieme, l’analisi sui limiti che il vivere associato impone alle reciproche libertà che, però, a loro volta possono essere bloccate (o almeno minacciate) da situazioni di contesto che finiscono per silenziarle o limitarne l’espressione esplicita.
Nei periodi e nelle situazioni in cui la complessità del mondo aumenta e la capacità del singolo di decifrare la realtà diminuisce, è alla ricerca del senso e del significato che ci si dovrebbe rivolgere, recuperando, io direi, le basi fondamentali del vivere e della vita, considerando che siamo tutti su/in questo mondo e che… non ne abbiamo altri.
Torna, quindi la domanda centrale che l’autrice si è posta partendo dal processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, uno degli architetti della soluzione finale, sulla banalità del male, cioè su ciò che può portare una persona che, per altri versi, appare una persona come altre, una persona apparentemente normale, a compiere atrocità e azioni disumane. E non si tratta di una domanda da relegare alla storia: basti anche solo pensare ai resoconti che in questi giorni stanno emergendo da coloro che erano imprigionati nelle carceri del dittatore siriano, il presidente Bashar Hafiz al-Assad.
“I tempi bui…non solo non sono nuovi, ma, anzi, non sono nemmeno eccezionali nella storia” (p. 23).
Ampliando lo sguardo sui messaggi che questa raccolta di saggi invia al lettore si possono evidenziare le tante disarmonie, le complessità e i molti paradossi della storia non meno che del singolo individuo, sempre in bilico tra il cedere – assegnando la propria coscienza ad altri – e il resistere al fine di perseguire il proprio cammino di pensiero critico e di azione responsabile.
Uomini in tempi oscuri (come da altri editori è stato tradotto il titolo del testo di Arendt, pubblicato in inglese nel 1968) è dunque un’opera che vale la pena leggere, oggi, così come molti altri testi che Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975) ha dato alle stampe nel corso della sua vita.
Andrea Castiello d’Antonio
Questa recensione è stata pubblicata nel sito web “DIFESA ON LINE”, il 16 Dicembre 2024.
https://www.difesaonline.it/evidenza/recensioni/hannah-arendt-lumanit%C3%A0-tempi-bui