CONTATTAMI

Per appuntamento

La seduta può essere svolta presso il mio studio oppure online tramite videochiamata.

* campo obbligatorio

CAPTCHA
Questa domanda è un test per verificare che tu sia un visitatore umano e per impedire inserimenti di spam automatici.

La “lezione” dell’Arcivescovo di Canterbury e la Servant Leadership

arcivescovo Canterbury servant leadership

   L’Arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, nel suo sermone in occasione del funerale della Regina Elisabetta II, ha fornito implicitamente una vera e propria lezione sulla leadership, iniziando con queste parole: “Il modello per molti leader è essere esaltati nella vita e dimenticati dopo la morte…”.

   È ciò che accade a molti di coloro che hanno gestito posizioni di potere: nel momento in cui lasciano l’azienda o la pubblica amministrazione divengono… niente. Il nulla. Fantasmi.

   Chi li osannava ora li ignora. Chi li adulava ora li disprezza e ne parla male!

   Proseguendo nel suo discorso e guardando negli occhi i propri interlocutori – come ogni buon formatore dovrebbe fare quando si ha di fronte una platea – l’Arcivescovo si rivolge ai maggiori leader mondiali seduti ad ascoltare. E sottolinea il valore del porsi al servizio degli altri – in questo caso: della nazione, dei cittadini – così come dichiarò ed effettivamente realizzò la Regina (che parlò di una vita dedicata al servizio della Nazione e del Commonwealth).

   Dunque un esempio di Servant Leadership, di leadership di servizio, così poco praticata nel nostro Paese in cui tanti pseudo-leader appena giungono a gestire il potere manifestano quella tipica pulsione predatoria che li conduce ad affrettarsi nell’acquisire ogni possibile, grande o piccolo, vantaggio e privilegio.  E per tenere buoni i loro collaboratori – visti davvero come sudditi – non hanno nulla di meglio da fare che dispensare prebende e promettere. Promettere ciò che non manterranno, ma che nel breve tempo della gestione del loro potere servirà a tacitare gli eventuali critici – cioè chi vede, e non finge di non vedere…

   Eppure, come sappiamo, mantenere veramente e autenticamente le promesse – traduciamo: essere fedeli e leali verso il mandato che si riceve – significa ottenere la stima e la considerazione di chi collabora e dei colleghi, non meno che dei capi.

   Significa, ancora traducendo con parole nostre, realizzare quella leadership basata sulla fiducia di cui tanto si parla.

   Essere identificati con il dovere da compiere sulla base del senso del dovere significa dunque porre in essere una leadership etica, mettere in atto il potere per gli altri e non per se stessi, puntare al bene comune nella convinzione che persone che lavorano (e vivono) sufficientemente bene non potranno che dare il meglio di se stessi nell’espletamento dei compiti e nel modo in cui condurranno la loro vita come cittadini.

   La leadership vera è quella di coloro che si pongono al servizio degli altri e non ritengono che – in virtù della gestione del loro (piccolo) potere – debbano essere serviti dagli altri!

   Nel nostro mondo pieno di parole e povero di fatti, i più semplici dettami di una sana leadership appaiono poco praticati, spesso stravolti, volutamente ignorati. Anzi, ignorati e posti in ridicolo proprio da quei pseudo-leader che della tracotanza fanno il loro carattere distintivo, unendo al narcisismo e al culto della persona l’aggressività propria di chi sa di non valore nulla – vedi il mio libro “Psicopatologia del Management” https://www.castiellodantonio.it/libri#206

   I comportamenti eclatanti di soggetti di tal genere – come, ad esempio: permettersi di urlare nei corridoi e negli uffici, usare il turpiloquio, propinare battute sconce, vivere insomma l’ambiente di lavoro come se fosse la propria tana – sono spesso accompagnati da quelle forme bestiali di rapporto umano che siamo ormai abituati a designare con i termini di mobbing e di bossing.

   Ma il vero leader è persona esemplare: è di esempio e modello per tutti gli altri. È il nuovo direttore generale o amministratore delegato che, quando si insedia nel ruolo, invece di dispensare ordini e comandi (senza neppure sapere dove si trova, chi sono e cosa fanno i propri diretti collaboratori) chiede: “In che cosa posso esservi utile? Di che cosa avete bisogno per lavorare al meglio?”

   In Italia siamo purtroppo abituati al nuovo grande capo che, insediatosi, cancella tutto ciò che è stato fatto prima, chiama a sé la “sua” squadra, e impone il verbo senza nemmeno aver parlato seriamente con coloro con cui dovrebbe lavorare e che hanno speso anni o decenni in quell’organizzazione in cui egli è appena arrivato…

   E non solo i cosiddetti “grandi manager” si comportano così. Anche i direttori del personale, come scrissi in un breve articolo del 2009 dal titolo “Due modesti consigli al Direttore del Personale” – un argomento che rientra nel grande tema dello sviluppo del capitale umano https://www.castiellodantonio.it/libri#465

   Ma per vivere il ruolo di leader in modo sano è necessario amare il proprio lavoro, la propria missione, l’organizzazione per la quale si opera, non dimenticando che qualunque obiettivo raggiunto è il frutto dell’opera di esseri umani e non di macchine, né di algoritmi.

   Richiamando le parole dell’Arcivescovo di Canterbury, coloro che hanno servito bene saranno amati e ricordati. Coloro che si sono aggrappati al potere e ai privilegi saranno ben presto dimenticati!

 

Andrea Castiello d’Antonio