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LA DISAFFEZIONE LAVORATIVA

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Riuscire ad avere una compagine di colleghi e collaboratori pienamente coinvolti nel progetto d’impresa è sempre stata una meta di valore per ogni manager, dirigente e imprenditore. Sulla questione del cosiddetto “ingaggio” dei collaboratori nell’organizzazione di lavoro si discute molto oggi, ma non sembra che si siano fatti dei veri e propri passi in avanti nel concreto delle realtà lavorative.

Il concetto di ingaggio, di coinvolgimento, ha preso il posto di quello (classico) di motivazione, cioè di motivazione al lavoro, finendo con il denotare un qualcosa “di più” rispetto alla motivazione. Un “di più” che dovrebbe portare la persona a entrare completamente nello spirito dell’azienda e del lavoro – quindi del ruolo cui è preposto – attivando tutta una serie di comportamenti virtuosi e di coinvolgimento non soltanto professionali, ma anche personali, sociali ed etici.

 

Con l’idea di engagement si indica in realtà un coacervo di qualità che il dipendente potrebbe/dovrebbe possedere o, almeno, impegnarsi a sviluppare.

Il concetto è legato al senso e alla volontà di impegno personale, di “esserci” nelle situazioni e nelle sfide aziendali, di essere disponibile, di “gettare il cuore oltre l’ostacolo”, assumendosi in pieno le responsabilità del ruolo gestito e della rete di rapporti interni ed esterni in cui è collocato.

L’engagement è sostenuto dal senso di appartenenza all’organizzazione, ma va anche molto oltre: esso rappresenta una sorta di affezione al ruolo, al compito e al mandato ricevuto, che conduce la persona a “fare di più” di ciò che gli è richiesto. Si tratta, dunque, di elementi che sono strettamente legati al valore della prestazione, sia individuale, sia del team, e proprio per questo motivo si tratta di caratteristiche altamente ricercate e valorizzate.

La condizione migliore è quella di scegliere dei collaboratori già potenzialmente o realmente contraddistinti da questo, personale, orientamento interiore: persone che in modo autonomo e libero affrontano compiti e responsabilità con tutto loro stessi, inserendosi al cento per cento nell’ambiente e nello spazio operativo che gli è assegnato. Però anche in tal caso nulla può essere dato per scontato e per acquisito una volta per tutte: anche i collaboratori scelti con cura e bene inseriti possono rivelarsi, ad un dato momento della carriera lavorativa, persone “difficili”, disaffezionate e lontane dallo spirito del lavoro.

 

L’opposto di engagement fa riferimento alle condizioni in cui la persona sente di non essere coinvolta, non desidera partecipare attivamente alla vita d’impresa, e non si mostra disponibile: essa rimane distante dagli input ricevuti, e si limita (nei casi migliori…) a “fare ciò che c’è da fare”, ma senza un proprio contributo o uno spirito costruttivamente interattivo. In questi casi si parla di dis-engagement, non-engagement, non-involvment: in sintesi, di disaffezione professionale e/o organizzativa.

La disaffezione lavorativa implica un drastico ridimensionamento del livello motivazionale e di partecipazione al lavoro, oltre a una decisa limitazione della prestazione professionale se non altro in termini di quantità di lavoro e di “presenza”, non solo fisica, sul posto di lavoro. Dunque, mentre è la capacità prestazionale ad essere immediatamente colpita – mentre l’aspetto delle potenzialità o delle proiezioni verso il futuro è assolutamente invisibile in tale situazione – ciò che emerge è una condotta tendenzialmente passiva (se non passivo-oppositiva), e una riduzione di visuale rispetto a scopi, obiettivi e mete professionali. Il soggetto si lascia trascinare dal day-by-day, senza offrire alcun contributo, manifestando un atteggiamento di globale sfiducia verso l’organizzazione e la gerarchia e, pertanto, rispondendo poco o per nulla alle stimolazioni e agli incoraggiamenti. Alla mancanza di interesse o piacere nello svolgere la mansione si accompagna la tendenza all’evitamento: evitare di essere chiamati in causa in ogni situazione che potrebbe comportare un maggiore, o diverso, impegno professionale.

 

Il dis-engagement mina alla base uno dei sentimenti più importanti che conducono l’essere umano adulto verso la realizzazione di se stesso, cioè il sentire di essere padroni della propria vita di lavoro e di guidare la propria realizzazione professionale. Accanto a ciò vi è una sorta di ripercussione emotiva per la quale la persona tende a sperimentare soprattutto emozioni di segno negativo, ondeggiando pericolosamente tra la rabbia, l’apatia e l’avversione. In alcuni casi si nota anche una sorta di “lasciarsi andare” che può scadere in forme larvate di depressione. Questo può accadere perché viene meno il senso, il significato del lavoro, per come esso è vissuto dalla persona – la quale può sentirsi “costretta” a continuare nella situazione attuale, senza vedere, o senza avere concretamente, alcuna via di uscita -. Nel lavoro è necessario che il compito che si svolge sia considerato in maniera almeno tiepidamente positiva dalla persona, pur considerando che vi sono innumerevoli casi di persone che “devono” svolgere un dato compito, senza averlo scelto o senza poter avere la speranza di mutare la propria condizione. In certi casi, molto può fare – in chiave positiva – il clima sociale, la situazione di gruppo, e l’organizzazione stessa del lavoro: tutti elementi che possono “arricchire” il lavoro.

 

Di fronte ad una persona disaffezionata al proprio lavoro sarebbe utile proporre stimoli in chiave positiva – cioè, evitare incitamenti del genere “Non essere demotivato…”, “Non affrontare il lavoro in questo modo…”, e fare molta attenzione a che non si costruisca, sulla persona in questione, uno stereotipo negativo. Tali stereotipi tendono a permanere nel tempo e soprattutto bloccano la persona nei suoi eventuali, timidi, tentativi di cambiamento. Quindi, se un collaboratore inizia ad essere visto dal proprio capo e da altri colleghi come un problema, e lui stesso diviene consapevole di tale visione, si instaura un circolo vizioso tale per cui la situazione – la percezione reciproca - si congela.

In ultimo non va dimenticato che la disaffezione lavorativa, nelle sue forme estreme, può portare con sé comportamenti distruttivi verso i beni e le proprietà dell’impresa, ovvero comportamenti “passivamente” distruttivi che si sostanziano nel non dare adito a azioni, compiti e incombenze: il comportamento passivo (consapevolmente posto in pratica, oppure implicitamente e non volutamente attivato) può infatti costituire una delle modalità di reazione al dis-engagement professionale e organizzativo.

 

Sono, però, soprattutto i primi comportamenti a preoccupare, quelli di genere distruttivo indirizzati verso l’organizzazione di cui si fa parte, dato che si avvicinano pericolosamente a tutta quella gamma di “azioni di sabotaggio” che possono avere come oggetto ogni bene o servizio aziendale, compresa la relazione con (e quindi l’immagine che è trasmessa verso la) clientela. Ma cosa conduce una persona a mettere in pratica simili condotte vendicative?

Sulla base degli studi empirici e delle ricerche finora disponibili, le cause di comportamento distruttivo a valle di situazioni di disaffezione lavorativa sono da rintracciare nelle seguenti situazioni:

  1. Percepita “ingiustizia”, iniquità sociale all’interno dell’organizzazione. Oltre a considerare la dinamica della distribuzione dei “premi & punizioni”, in questa area si deve tenere presente l’aspetto dei carichi di lavoro. A parità di mansione e di retribuzione, la disparità di carichi e responsabilità professionali è vissuta tipicamente come una ingiustizia lavorativa.
  2. La mancanza di trasparenza nella vita organizzativa, ad iniziare dalla comunicazione interna e dal modo in cui i capi trattano i loro collaboratori. Comunicazione, informazione, accesso alle informazioni di base e coinvolgimento del personale sono tutti importanti “motori” di commitment organizzativo e di motivazione professionale.
  3. La pressione lavorativa esercitata soltanto su taluni soggetti. Si tratta del classico caso in cui alle persone più competenti in uno specifico settore professionale è richiesto “di più” rispetto alle persone meno dotate di skill professionali specifici e/o meno portate a svolgere il lavoro.
  4. Fenomeni di abuso di potere, vale a dire stili di leadership intrusivi e fortemente autoritari esercitati sul team in modo generale, o sul singole persone in particolare. Micro-esempi di tal genere sono costituiti dall’approvare e poi modificare unilateralmente e senza spiegazioni i piani ferie, dall’esercitare un controllo poliziesco sulla giornata di lavoro, dal non consentire l’esercizio normale dei diritti del lavoratore.
  5. Una ulteriore causa di condotte vendicative e distruttive può essere individuate nelle situazioni generali in cui l’impresa, il datore di lavoro o il capo diretto non onorano impegni già assunti con la persona. In situazioni di tal genere il divario tra aspettative del soggetto e “realtà” di lavoro si fa talmente grande da portare la persona “lontano” dall’azienda. Non va infatti dimenticato il potere negativo del “sentirsi frustrati ed impotenti” di fronte a percepite ingiustizie o mancanze della struttura da cui si dipende. Il binomio frustrazione-aggressività è, del resto, molto noto nei campi di studio che si occupano della persona inserita in contesti sociali.  

 

Tutte queste situazioni possono innescare sentimenti di frustrazioni e di rivalsa, di oppressione e di vendetta, che si esplicitano in modo indiretto attraverso il danneggiamento di strutture e funzioni aziendali, sulla base di una forte disaffezione lavorativa e di un venire meno del cosiddetto “contratto psicologico” tra individuo e impresa.

Si tratta di manifestazioni di ciò che è stata definita senza mezzi termini “devianza organizzativa” (che può avere anche altre cause e può manifestarsi in molti altri modi rispetto a quelli che stiamo qui discutendo): una modalità di comportamento organizzativo che viola le norme lavorative e i doveri organizzativi e che, di conseguenza, ha un impatto negativo sulle persone, sul loro benessere e sulla “salute organizzativa” in senso lato.

 

Andrea Castiello d’Antonio