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Ecco alcune questioni di base circa la formazione delle risorse umane nell’ambito della Pubblica Amministrazione, in collegamento alle attuali “40 ORE”.
Uno degli ultimi decenni fu definito il decennio della formazione nella P.A., ad indicare fino a che punto la leva della formazione avrebbe potuto dare un contributo a supporto dei cambiamenti, delle innovazioni e delle riforme che hanno coinvolto la nostra P.A.
L'impegno di base è stato rivolto, com'era facile immaginare, ad implementare i due canonici criteri dell'efficacia e dell'efficienza nell'ambito della cornice del cosiddetto NPM - New Public Management.
Se da un lato “la formazione” – termine generico e impreciso! – ha dato e sta dando il proprio contributo alla trasformazione organizzativa degli apparati del nostro Stato, dall'altro ha mostrato vecchi e nuovi limiti nell'impatto con un ambiente lavorativo e culturale parecchio diverso da quello dei settori privati.
L'eterogeneità della P.A., d'altro canto, non consente di proporre un discorso globale, pena la massificazione delle riflessioni in un contesto general-generico che, di fatto, non esiste.
Di formazione, anche nel mondo delle nostre amministrazioni pubbliche, si parla spesso - direi, anzi, sempre - esprimendo una grande varietà di approcci e di opinioni, cosa che arricchisce continuamente il dibattito.
Soprattutto, ciò che colpisce l'attenzione, è che a fronte di tante esperienze, riflessioni, studi, teorizzazioni, convegni e discorsi sulla ed intorno alla “formazione”, si ripetano in aula situazioni che conducono il docente a toccare con mano i concreti limiti della formazione - considerata in ottica globale, quale intervento di apprendimento & cambiamento - e i propri stessi limiti, come persona e come formatore!
Alcuni sostengono che i termini formazione e addestramento dovrebbero essere impiegati scambievolmente, tralasciando le tradizionali distinzioni dalle quali questa terminologia è stata a lungo caratterizzata: ciò in base alla considerazione che spesso i contenuti “tecnici-professionali” dell'attività lavorativa vanno sovrapponendosi ai contenuti relazionali e gestionali – in una parola, “personali” - per cui diviene difficile differenziare la “docenza di contenuto” tecnico‑addestrativo da quella orientata alle “problematiche di relazione” (ruolo, sistema organizzativo, comunicazione, comportamento di lavoro).
Seguendo questa linea si ricadrebbe in una non augurabile confusione terminologica-concettuale, incorrendo nella sottovalutazione della specificità e particolarità della formazione in senso stretto: infatti, non solo i contenuti trasmessi sono differenti, ma lo sono anche le modalità didattiche, gli obiettivi, le persone stesse che sono chiamate a svolgere la docenza e, nello specifico, il loro personale posizionamento interiore verso l'oggetto di lavoro.
Inoltre, risultano diversi le situazioni ed i climi di aula, le dinamiche psico-sociali e le implicazioni emotive sollecitate.
Per l’insieme di tali motivi è sempre bene non fare affidamento al solito “formatore improvvisato”, del tipo (esemplificando): l’ingegnere che si occupa di fare addestramento sulla sicurezza o sulla logistica che, però, “al bisogno” fa anche la formazione sulla comunicazione, e via dicendo…
In altre parole, mentre la formazione è orientata allo sviluppo di comportamenti organizzativi, valori, consapevolezza di ruolo, capacità individuali ed interpersonali, la seconda è rivolta soprattutto all'incremento di conoscenze, modalità operative, attività specifiche di lavoro, competenze tecnico- professionali e saper fare.
Chi si occupa di "addestramento" del personale è solitamente centrato sulla trasmissione di nozioni e di contenuti, ricalcando un modello di insegnamento che viene definito "tradizionale" – anche se va osservato che, negli ultimi decenni, l'utilizzo dei metodi didattici attivi è (finalmente!) entrato nell'uso corrente anche delle attività di addestramento del personale, costituendo una sorta di ponte tra la trasmissione unilaterale di contenuti e la rielaborazione degli stessi in momenti, ad es., di gruppo e di case‑study.
La "formazione" propriamente detta si è d'altro canto fin dall'inizio caratterizzata attraverso il coinvolgimento dei discenti in quanto persone prima ancora che come “ruoli” o professionisti. È di forte rilevanza la loro attiva partecipazione alla "lezione" (del tutto estranea al concetto tradizionale e scolastico del termine), la produzione propositiva di riflessioni e l’elaborazione di soluzioni ai problemi posti.
In sintesi, ciò che continua a differenziare la formazione e l'addestramento è l’intero setting di aula (comprese le fasi pre- e post-docenza), oltre ad un importante, diffuso, non visibile e globale “impianto” che comprende stili relazionali, contratto formativo, atmosfera e clima della sessione, livelli di partecipazione del docente stesso oltre che dei formandi, coinvolgimenti personali e aperture di campo.
Mi sembra dunque corretto, pur se potenzialmente riduttivo, tener separati i significati che i due termini sottendono, con l'accortezza di situarli ai due estremi di un ideale continuum nel quale le polarità da opposte diventano progressivamente complementari, cogliendo la ricchezza idiomatica che la nostra lingua ci consente, utilizzando addestramento & formazione al posto dell’omnicomprensivo training così come è nella letteratura internazionale e nella lingua inglese.
Il termine formazione, in prima istanza, non sembra aver bisogno di null’altro che lo specifichi ed appare pertanto assai discutibile, se non risibile, l’uso di espressioni quali formazione aspecifica, o formazione comportamentale.
È, invece, a mio avviso assai importante declinare sinteticamente la formazione secondo il macro indirizzo metodologico individuato - mentre individuarla secondo la teoria specifica comporta un impegno, ed uno spazio espositivo, di gran lunga maggiore.
Così, ad esempio, si parlerà di formazione psico-sociale, psico-dinamica, comportamentista, situazionale, cognitivista, sistemica, lasciando ad un’ulteriore fase di specificazione l'individuazione la teoria di riferimento, e/o il modello applicativo.
L'ultima, la terza fase di specificazione, è quella che tutti conosciamo, vale a dire è ciò che si esplicita nel titolo del corso - ad esempio, Corso di Leadership - ma, in realtà, è anche quella meno utile a capire (e far capire) cosa veramente si vuol realizzare in aula.
Seguendo l'esempio appena proposto, ormai non c'è organizzazione di una certa importanza che non abbia "già fatto" un corso sulla leadership.
Il problema, non da poco, è che se si domanda che cosa è stato fatto, con quale teoria di leadership si è lavorato, per mezzo di quali tecniche specifiche (lasciando stare le onnipresenti e declamate "tecniche attive"), spesso non si hanno risposte.
È questa l’area oscura ed opaca delle metodologie di formazione nel nostro Paese!
Si va avanti “per titoli”, per slogan, per etichette: il “corso” è stato “fatto”, sulla “negoziazione” abbiamo già fatto due corsi, i dirigenti sono già andati a seguire un corso sulla “gestione dei conflitti” presso la nota scuola di formazione XY, e così via… Quando poi si accoppia il “titolo” del corso al “nome” della scuola o della società di consulenza che l’ha tenuto, il gioco oscurantistico è completo: sembra di aver detto tutto, invece non si è detto niente!
La formazione del personale mi sembra dunque che rappresenti una tematica fortemente presente nell'evoluzione delle strutture di lavoro, ma anche spesso oscura in termini teorico-metodologici. Mentre le cose sono - o più facilmente “appaiono” – sufficientemente chiare consultando libri specialistici e trattati, esse diventando opache nel momento in cui sono applicate nella realtà viva della vita di lavoro e della specifica organizzazione, ed ancora meno comprensibili quando sono “raccontate” da altri che, peraltro, il più delle volte non le hanno vissute, limitandosi a giocare il ruolo di committente dell’intervento formativo.
Superati i momenti di avvio sperimentale, le fasi necessariamente eroiche delle iniziative pionieristiche, i momenti di fuga in avanti che hanno caratterizzato un certo periodo "turbolento" della storia italiana, oggi la formazione tende a configurarsi come un'attività apparentemente matura, solidamente installata nelle funzioni di gestione e sviluppo del personale, vissuta dalle persone migliori come qualcosa di tendenzialmente naturale - pur se, troppo spesso, del tutto episodico -.
Più che parlare di “formazione aspecifica” si potrebbe parlare di “formazione episodica”, o “intermittente”: sarebbe di certo molto più serio…
Si è comunque passati da un'attività formativa disancorata dall'evoluzione organizzativa e frequentemente ritenuta una specie di "premio" da assegnare ai più meritevoli, ad una concezione diversa: lì ove vi è un impegno corretto e concreto verso la formazione, quest’ultima tende ad essere erogata e concretizzata senza soluzione di continuità, in un'ottica di alternanza dell'apprendimento con il lavoro ‑ o di apprendere sperimentando ‑. Talvolta vi è (addirittura!) una sorta di pianificazione della formazione e ciò tende naturalmente a legare la formazione con la vita quotidiana di chi è inserito nelle organizzazioni.
Eppure, come è stato detto, molta parte dello sviluppo delle competenze di una persona deve essere centrata sul disimparare, sull'abbandonare modalità tradizionali e ossificate di pensare ed operare.
Su questo, ancora oggi, il silenzio dei professionisti e dei gestori della formazione è assordante. La formazione è ancora del tutto basata soltanto su uno dei due principi leonardeschi. Essa procede, infatti, “per via di porre”, quasi mai “per via di levare”: e così, la “scultura” che si va erigendo del formando appare sempre di più cacofonica e multilivello, complicata e difficilmente gestibile.
Infine, una riflessione proprio sul momento attuale, sulle “40 ore di formazione” obbligatorie.
Ultimamente sento spesso formatori… demotivati!
Formatori, anche bravi, chiamati a colmare le fatidiche “40 ore” con aule di partecipanti a dir poco imbarazzanti.
Aule tutte online – FAD! – persone che tengono la videocamera spenta, che non si sa se ci sono, oppure se lasciano il pc acceso e se ne vanno in giro.
Aule virtuali di 40, 50 o più persone… Una marea.
“Precettate” nel partecipare a corsi che non hanno scelto e che, spesso, non sono di… pronto impiego.
Persone che non partecipano attivamente, che alle domande del formatore non rispondono se non i pochissimi (generalmente, sempre gli stessi!).
Domanda. A che serve fare “formazione” così?
Risposta. A “Fare le 40 ore”…
Andrea Castiello d’Antonio
Questo articolo è tratto in parte da alcuni miei scritti sulla formazione pubblicati nel corso degli anni, come i seguenti:
Castiello d’Antonio A. (2014), Come, quando e perché la formazione non funziona. Cause e rimedi per una formazione utile e sostenibile. Franco Angeli, Milano.
Castiello d’Antonio A. (2009), “Su alcuni limiti dell’efficacia della formazione”. Risorse Umane nella Pubblica Amministrazione, 1:17-30.
Castiello d’Antonio A (1998), “Formazione manageriale, rievocazione dei contenuti e apprendimento in una popolazione di funzionari bancari di differente livello di potenziale”. FOR. Rivista per la Formazione, 34/35, 93-106.
Castiello d’Antonio A (2007), “Formazione e psicologia”. FOR. Rivista per la Formazione, 71, pp. 55-59.
Castiello d’Antonio A. (2008), “Le collusioni del docente con i partecipanti nella formazione manageriale”, FOR. Rivista per la formazione, 76: 59-66.
Castiello d’Antonio A. (2011), (a cura), La formazione del personale pubblico. Modelli innovativi per amministrazioni di eccellenza. Franco Angeli, Milano.