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Ancora sulla “resilienza”!
Dalla metallurgia, intesa come la capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi – un po’ come l’immagine delle canne al vento, che si piegano ma non si spezzano… - alla psicologia.
Tra Covid-19 e Recovery Plan la parola “resilienza” ha spopolato, tutti ne hanno scritto e parlato, spesso a sproposito. Il miglior articolo breve che ho letto sulla resilienza non è di uno psicologo, non di un ingegnere, ma di un accademico, scrittore e critico letterario, Marco Belpoliti, pubblicato su La Repubblica del 15 maggio 2021. Da questo articolo, sintetizzo.
Il termine è stato coniato nel 1769, con il significato di “saltare indietro” (gradiente di elasticità di un materiale), prendendo il posto del termine “resistenza” perché con resilienza si sta ad indicare non solo il resistere ma anche la reazione all’urto.
Epiteto e Marco Aurelio utilizzavano il termine “forza d’animo”, ma resilienza è da tempo entrato nel linguaggio psicologico: come mai?
Due psicologhe americane, nel 1955, Emmy Werner e Ruth Smith lo utilizzarono nell’ambito di una importante ricerca che è durata decenni, osservando 698 bambini dell’isola Kauai nelle Hawaii fino all’età adulta. Per circa 40 anni furono studiate le fasi di vita di questi soggetti, con attenzione agli elementi di stress, alle condizioni di origine, e agli eventi di vita.
Su 698 bambini, 201 erano contrassegnati da fattori di rischio ambientale (famiglie di origine povere, problematiche, isolate…) ma di loro 72 erano riusciti a realizzare una buona vita, adattandosi positivamente e inserendosi nell’ambiente. Ecco comparire il termine di resilienza nei lavori pubblicati dalle due psicologhe a inizio anni Ottanta, preceduti dal saggio di Emmy Werner (1971), The Children of Kauai: A Longitudinal Study from the Prenatal Period to Age Ten (Honolulu: University of Hawaii Press).
Dallo studio dei fattori di disagio si stava così passando allo studio di ciò che rendeva una persona “elastica” nei confronti di situazioni drammatiche e/o traumatiche.
Dalla metallurgia alla psicologia, l’attuale definizione di resilienza suona così: capacità di evolversi anche in presenza di fattori di rischio. Oppure “l’arte di navigare i torrenti”, come è stata definita dal neuropsichiatra francese Boris Cyrulnik, ebreo, sfuggito ai lager, che perse entrambi i genitori nei campi di sterminio.
Ecco le tre aree della resilienza. Risorse individuali, familiari, e fattori extra-familiari.
Primo Levi utilizzò per primo, in italiano, la parola resilienza.
Ora, andando oltre l’articolo di Belpoliti – ma vedi anche un suo interessante video qui - il concetto di resilienza risponde alla domanda: cosa fa sì che alcune persone sopravvivano e superino le difficoltà, conducendo una vita piena, significativa e di realizzazione, mentre altre finiscono con l’essere vittime di stress, disturbi mentali, disadattamenti, o dipendenze?
Dennis S. Charney, professore di psichiatria e neuroscienze al Mount Sinai School of Medicine (N.Y.) insieme al collega Steven M. Southwick, professore di psichiatria alla Yale University School of Medicine, ha firmato il saggio Resilience. The Science of Mastering Life's Greatest Challenges (giunto nel 2018 alla seconda edizione per la Cambridge University Press).
Charney e Southwick hanno intervistato vittime di abusi e di crimini, prigionieri di guerra e sopravvissuti, concludendo che le persone che hanno dimostrato elasticità nei confronti delle difficoltà hanno alcune caratteristiche.
La prima è un ottimismo radicato nella realtà. La seconda caratteristica riguarda l’esistenza di modelli di riferimento. La terza è rappresentata da una convinzione, un credo morale o religioso che permette di dare un senso alla propria esperienza.
Poi emergono le capacità di gestire le proprie paure, la socializzazione, e l’accettazione della realtà. Anche la capacità di usare al meglio le proprie esperienze precedenti aiuta a superare le difficoltà – e, da tale constatazione, l’invito a non iper-proteggere, a non educare (sempre e comunque) facendo permanere il soggetto nella comfort-zone: “Se cresci in un ambiente privo di stress, non sei preparato ad affrontare le difficoltà che, inevitabilmente, la vita presenta”.
Quindi: darsi uno scopo nella vita, costruirsi una valida rete sociale, allenarsi a superare le difficoltà, basarsi su un sistema di valori, e affrontare le proprie paure!
Non facile… La sfida, per molti, sarà “come” fare tutto ciò, e “come aiutare” gli altri a costruirsi un quadro simile di capacità individuali. E’ il tema della formazione delle qualità psicologiche, della Education – vedi 2 miei libri sulla formazione qui: "La formazione del personale pubblico" e "Come, quando e perché la formazione non funziona".
E’ il tema di come fare a formare persone – cittadini – migliori!
Andrea Castiello d’Antonio