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Con questo numero di OUTSIDER inizia una nuova rubrica che vuole proporre alcuni argomenti sul tema della cosiddetta “cattiva leadership”.
Ma di cosa parliamo quando parliamo di Bad Leadership?
Ciò che oggi si osserva nel mondo del lavoro è qualcosa di molto lontano dai classici stili disfunzionali di gestione manageriale, molto noti ed elaborati nella prima metà del secolo scorso: gli stili autoritari, lassisti e consociativi, incarnati da tipologie di capi ben definiti, rispettivamente caratterizzati dalla direttività dogmatica e verticistica, dall’evitamento del mandato gestionale e dalla ricerca del supporto sociale ad ogni costo. A tali stili di leadership si contrapponevano tipicamente gli stili consultivi, democratici, partecipativi, indicando pertanto nell’essere capaci di rendere coeso il team una delle (molte) abilità del sano management.
Le molte forme di cattiva leadership hanno almeno una caratteristica in comune e cioè quella di disgregare il gruppo, infondendo rivalità, sospetto, diffidenza reciproca, e arroccamento di ciascuno a difesa della propria posizione avvertita come rischiosamente precaria. Dunque possiamo partire dalla constatazione che le forme distruttive di leadership distruggono la coesione tra i membri, il senso di appartenenza, lo spirito di compiere un’impresa in comune e la volontà di cooperare. Il capo che pone in essere tale dinamica ha, infatti, interesse a gestire una squadra disunita con lo scopo di poter fare meglio e più pressione sui singoli membri che, a quel punto, si sentono del tutto dipendenti dal capo; in un certo senso, “nelle sue mani”, sviluppando paura, silenziosa opposizione, o comportamenti di collusione con il bad manager. L’output professionale ne risentirà sicuramente, ma il vantaggio per colui che vuole dirigere in modo da annullare qualunque visione critica interna è quello di potersi muovere a suo piacimento.
Non a caso quasi tutte le forme di leadership distruttiva possono accompagnarsi a comportamenti manageriali francamente delinquenziali, cioè a azioni in cui il capo punta a ottenere vantaggi per sé, ignorando il risultato aziendale.
Le forme distruttive di leadership - di cui, nel dettaglio, potremo tornare ad occuparci - possono manifestarsi in qualunque contesto socio-organizzativo, sia nelle imprese orientate ad un fine produttivo, sia nelle istituzioni socio-culturali, educative e sanitarie, fino alle organizzazioni militari. Cogliendo l’occasione del centenario della Prima Guerra Mondiale, si dovrebbe riflettere sui numerosi esempi di pessimo comando che hanno portato a disfatte, sconfitte e alla perdita di centinaia di migliaia di soldati, utilizzati come pedine in scacchiere che alcuni generali osservavano da lontano, senza dare autonomia ai comandanti sul campo di battaglia. Accentrare autoritariamente la leadership lontano dalla realtà dei fatti operativi, inibendo inoltre l’autonomia dei responsabili diretti che si confrontano sul terreno con gli obiettivi da conseguire, è un problema sempre vivo e ben visibile anche nelle organizzazioni di lavoro di oggi.
Quando si parla di leadership emerge da sempre il confronto-scontro tra chi pensa che il punto nevralgico della questione stia nella personalità del capo e chi ha invece un’ottica orientata alla dinamica sociale e all’interazione capo-collaboratori. E’ indubbio che il tema non possa essere visto soltanto da un vertice di osservazione - vedi l’ottica cosiddetta Followercentric emersa non troppo tempo fa per comprendere al meglio le dinamiche di leadership - ma sembra anche riduttivo congelarsi in una disputa che appare assai simile a quella, ben più conosciuta, tra il primato della cultura e il primato della natura nello sviluppo dell’essere umano. Vi è però un punto fondamentale nel dirimere la questione e cioè che il leader e il manager hanno la responsabilità di ruolo e di funzione di gestire le risorse che sono loro affidate e di condurre l’attività verso la realizzazione di un obiettivo. Da ciò consegue - come ho mostrato nel mio libro L’Assessment delle qualità manageriali e della leadership(Franco Angeli, Milano, 2013) - che scegliere dei “validi” capi è essenziale per la sanità dell’organizzazione nel suo complesso e per l’efficienza dei processi organizzativi.
Dal punto di vista delle qualità non-tecniche, scegliere persone “valide” significa individuare soggetti tendenzialmente privi di caratteristiche psicopatologiche e in possesso di valori di riferimento sani: è sulla base di queste due aree di qualità personali che possono manifestarsi gli stili di leadership costruttivi, orientati al futuro, al benessere organizzativo e ad un corretto conseguimento degli scopi organizzativi. In una parola, è (anche) in base ad un’accurata scelta e formazione delle risorse collocate in ruoli di responsabilità che è possibile contribuire a formare una compagine sana ed efficiente, evitando di “disumanizzare” il capitale umano.
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Andrea Castiello d’Antonio
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