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LE RELAZIONI NEI GRUPPI. IDEOLOGIA, CONFLITTO E LEADERSHIP

Titolo: 

LE RELAZIONI NEI GRUPPI. IDEOLOGIA, CONFLITTO E LEADERSHIP

Autori: 
Otto F. Kernberg
Casa editrice: 
Raffaello Cortina. Milano 1999. Pp. 348.

Questo libro (ed. or.: Ideology, Conflict and Leadership in Group and Organizations, 1998) denso di idee ed approfondite considerazioni, raccoglie sedici contributi (già apparsi come articoli di riviste scientifiche o come capitoli di libri a cura di altri autori, dalla fine degli anni Settanta ad oggi), rivisti, ampliati e modificati in epoca più che recente - l’edizione originale è, infatti, del 1998.

In una parola, il volume presenta l’opinione di Kernberg sulle dinamiche organizzative ed istituzionali, sulla vita dei gruppi e sul ruolo e le funzioni del capo: si tratta, a pieno diritto, di una riflessione di psicoanalisi dell’organizzazione, che nasce sia dalla diretta esperienza dell’Autore in qualità di consulente, membro di staff organizzativi e direttore egli stesso di scuole ed istituzioni, che dalla concettualizzazione teorica originale, maturata nel corso di alcuni decenni e centrata (come è ormai noto, considerati la quantità di scritti di Kernberg tradotti in italiano e la sua presenza in seminari e convegni anche nel nostro Paese) sulla teoria delle relazioni d’oggetto.

Il testo è dedicato alla memoria di Ignacio Matte Blanco ed Ernst Ticho (già direttore del servizio di psicoterapia della Menninger Foundation) entrambi maestri ed amici di Kernberg; ma è importante notare che i debiti di riconoscenza esposti nell’Introduzione sono molti e davvero significativi al fine di rintracciare il percorso intellettuale e di esperienza seguito da Kernberg: sono infatti nominati Harry Levinson (ex direttore del dipartimento di psicologia industriale presso la Menninger Foundation), Thomas Dolgoff (ex professore di teoria gestionale alla Menninger Foundation), John Sutherland (ex direttore della Tavistock Clinic e consulente senior alla Menninger Foundation), e ancora Didier Anzieu, René Kaes, Pierre Turquet, Malcom Pines, Earl Hopper e Abraham Zaleznick.

E’ lecito ritenere che l’insieme degli spunti e dei confronti avuti nel corso del tempo con questi ed altri psicoanalisti abbia permesso a Kernberg di edificare un corpus di idee che si trova collocato a cavallo tra la psicoanalisi clinica, la psicopatologia individuale, la psicopatologia delle organizzazioni e la dinamica dei gruppi.

Lo scopo del libro, così come esplicitato fin dall’inizio, è quello di presentare tale quadro integrato, applicandolo all’analisi dei fenomeni regressivi di gruppo, alla funzione e alla natura della leadership ed utilizzandolo come supporto per riflettere sul funzionamento (fisiologico e patologico) delle organizzazioni.

 

Il testo è suddiviso in cinque grandi aree (delle quali una è specificatamente dedicata alle problematiche della formazione psicoanalitica).

La prima area - dedicata agli studi psicoanalitici sui processi di gruppo - si apre con un rapido richiamo al Freud di Psicologia delle masse e analisi dell’Io, per poi prendere in considerazione i contributi di Bion, Rice, Turquet, Anzieu e Chasseguet-Smirgel sui fenomeni del piccolo e del grande gruppo: tale passaggio teorico viene ripetuto più volte nel corso del testo, enfatizzando ora uno ora l’altro aspetto, come a voler ribadire con precisione quale sia stato il percorso intellettuale seguito e maturatosi nel corso del tempo, ad opera di persone diverse.

Una delle idee centrali contenute in questa prima parte è costituita dall’analisi di determinate condizioni di gruppo che tendono a provocare una regressione psicologica a livelli primitivi, anche in individui che presentano maturità ed integrazione emotiva adeguate; nell’organizzazione come sistema aperto, giocano un ruolo importante sia la definizione del compito primario e dei confini del sistema, che la gestione delle relazioni da parte del leader (e, quindi, la personalità del leader e il modo in cui viene percepito dal gruppo). Insieme allo studio dei legami di natura libidica tra il capo e i suoi seguaci diviene imprescindibile osservare le vicissitudini dell’aggressività intragruppo, ciò anche sulla base delle operazioni di scissione che danno luogo ad idealizzazioni e a persecuzioni primitive - ed alle difese contro di esse -.

Con la Seconda Parte del volume si entra nel vivo delle riflessioni in tema di leadership, là ove si integrano le teorie psicoanalitiche delle relazioni oggettuali, dei processi di gruppo e la teoria dei sistemi aperti. Quest’ultimo aspetto viene ripreso dalle osservazioni e dagli studi di Kenneth Rice (del Tavistock Institute of Human Relations) che considerava il soggetto, il gruppo e l’organizzazione come un continuum di sistemi aperti.

Viene messa in evidenza la solitudine del leader e la sua condizione esistenziale di incertezza unita alla frustrazione dei suoi bisogni di dipendenza e rassicurazione, mentre il gruppo tende a crearsi un’immagine del capo frutto di proiezioni; il modo in cui il leader gestisce la propria aggressività e il potere connesso alla sua posizione si riverbera nel funzionamento del gruppo e quest’ultimo viene visto da Kernberg come un chiaro segno dell’efficacia della leadership.

Paradossalmente, un capo ottimale può incrementare a tal punto le aspettative del gruppo da causare inevitabilmente delusioni, e perciò ripercussioni aggressive all’interno del team; ma il più delle volte, le potenti spinte regressive che provengono dalle dinamiche di gruppo in assunto di base e l’accendersi delle caratteristiche patologiche della personalità del capo, inducono un massiccio ripiegamento del funzionamento aziendale verso modalità irrazionali, non funzionali e distruttive.

Si evidenziano così le situazioni in cui un leader narcisistico dirige un gruppo dipendente, oppure uno paranoico un gruppo attacco-fuga.

Ecco, allora, emergere il problema diagnostico degli aspetti patologici della personalità del dirigente (aspetti, ad esempio, schizoidi, ossessivi e paranoidi), mentre il narcisismo patologico viene differenziato dal narcisismo sano (un tema caro a Kernberg), fino al punto di indicare quelle che potrebbero essere le caratteristiche personali auspicabili in un dirigente.

L’inevitabile ambivalenza che permea la vita organizzativa, complicata da un mix di aggressività reale (competizione e confronto interpersonale) e aggressività proiettata ed agita nei confronti delle figure di transfert, chiama il leader ad una potente attivazione del suo teatro interno di relazioni oggettuali; a causa del potere reale da lui gestito e della visibilità immediata delle sue reazioni, il capo si pone alla ribalta, al cospetto del/dei gruppi che coordina, enfatizzando i suoi personali tratti. La vita aziendale diviene così una sorta di cassa di risonanza delle relazioni oggettuali inconsapevoli dei diversi attori, in un gioco di reciproche attribuzioni di significato che può molto facilmente volar via dalle mani del capo e tradursi in un vissuto drammatico generalizzato.

Kernberg si interessa poi della personalità autoritaria da un lato, del conformismo, della burocrazia e delle ideologie dominanti dall’altro: non a caso, il capitolo quattordicesimo ripropone il suo famoso scritto Trenta modi per distruggere la creatività dei candidati psicoanalisti.

Va notato che Kernberg sottolinea, in modo alternato, due fattori responsabili dell’efficacia della leadership organizzativa: da un lato la personalità del leader e dall’altro la relazione che esiste tra lo scopo istituzionale dell’organizzazione e la sua struttura gestionale (come già in Jaques). Non si sfugge all’impressione che il primo dei due fattori venga, stranamente, spesso posto in ombra dal secondo, a sua volta collegato alla visione dell’impresa come sistema aperto a alla necessità del raggiungimento dell’obiettivo finale: vi è qui, forse, la preoccupazione di non psicologizzare ciò che nell’ambiente organizzativo ed istituzionale è anche frutto delle dinamiche di strutture e funzioni, di organizzazione e di deleghe.

E’ difficile incorrere nel pericolo di sovrastimare la personalità dei leader - ai diversi gradi gerarchici - nel rendere sana o patologica la vita di lavoro.  Ma il pensiero investigativo di Kernberg è ben messo in luce allorché afferma «quanto sia gratificante attribuire la causa di tutti i problemi a un dirigente, anziché concentrarsi sulla dolorosa e complessa interazione dei vari sistemi che contribuiscono a determinare il suo comportamento» (p. 59). Altri consulenti e studiosi psicoanalisti dell’organizzazione risultano essere, su tale punto, assai più espliciti e categorici, vedendo nell’igiene mentale profonda dei capi al vertice un potente fattore di influenzamento per l’intera organizzazione. Probabilmente, la visione di Kernberg risulta più equilibrata - soprattutto se applicata alle gerarchie intermedie dell’organizzazione - ed è comunque il frutto dell’approccio integrato e diversificato da lui utilizzato, in contrasto con visioni più prettamente personologiche e individual-psicopatologiche.

Per concludere, il volume di Kernberg giunge in un momento in cui anche nel nostro Paese, da parte di qualcuno, si guarda con più convinzione alla vita delle istituzioni e delle organizzazioni pubbliche e private come ad un mondo ben più complesso di ciò che generalmente appare; gli eventi inconsci del vivere organizzativo emergono alla ribalta se chi osserva (ed interviene) ha la possibilità, prima di tutto personale e poi di competenza professionale, di andare al di là del dichiarato e del già detto. La gran parte delle sofferenze istituzionali e del normale disvalore della vita vissuta in contesti organizzati possono forse essere compresi e modificati solo ponendosi da un vertice esplicitamente clinico ed analitico.

 

Andrea Castiello d’Antonio

 

 

Questa recensione è stata pubblicata nella rivista PSICOTERAPIA E SCIENZE UMANE, numero 4, Volume XXXV, numero 4, pp. 125-127, 2001