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Tra le numerose e sempre più aggressive “dipendenze” nell’era digitale non potevano mancare i fenomeni legati al non sapere più staccare la spina del computer, in particolare nella forma di internet-dipendenza.
Il workaholism (termine inglese che deriva dall’analogia fonetica con alcoholism, e introdotto nella letteratura psicologica per indicare la compulsione o l’incontrollabile bisogno di lavorare incessantemente) è un comportamento patologico di una persona troppo dedita al lavoro che pone in secondo piano la sua vita sociale e familiare. È considerata una dipendenza rispettabile, socialmente tollerata, vissuta con una sorta di "benevolenza" sia dal soggetto che dall'ambiente. Ma, come in tutte le dipendenze, le persone tendono a sottovalutare il proprio stato, convinte di poterne uscire fuori quando vogliono. Purtroppo non è sempre così.
E’ interessante notare innanzitutto che, in questo nuovo quadro delle dipendenze della modernità liquida, è che esse non fanno più riferimento all’utilizzo di sostanze come le tradizionali dipendenze da tabacco e alcol, ma ad oggetti, comportamenti e, in generale a situazioni. Mentre le prime vengono severamente condannate la dipendenza da lavoro è spesso sottovalutata. Lavorare continuamente, nei weekend, accumulando ferie non godute, rimanendo connessi con gli strumenti elettronici al contesto di lavoro anche di sera, di notte e quando si trascorre del tempo nella propria abitazione, è un danno notevole.
Nell’ambiente di lavoro la presenza di un workaholic (malato di lavoro) può essere ancora più gravosa gravosa nel caso in cui egli sia collocato in un ruolo di responsabilità professionale o, soprattutto, manageriale. È, infatti, tipico di questo soggetto aspettarsi dagli altri le proprie stesse elevate prestazioni e se tale attesa è veicolata da un capo intermedio verso il gruppo dei propri collaboratori, allora il clima di lavoro ne risente pesantemente. Possono emergere con facilità stili di management distruttivi, centrati sull’autoritarismo e sul controllo, sull’esercizio della pressione costante supportata dal considerare gli esseri umani come macchine che devono funzionare per il raggiungimento dell’obiettivo.
L’alcolista da lavoro va però distinto dall’hard worker, ossia colui che lavora spinto dalla motivazione ad eccellere. Persone che amano il proprio lavoro e che, di conseguenza, sono in grado di realizzare prestazioni professionali molto sopra la media, senza un apprezzabile sforzo inteso come “fatica” o distress occupazionale. In questo caso è la persona stessa che guida e domina il proprio sforzo, non ne risulta schiava. Non sono presenti la “fame di lavoro” e la compulsione a lavorare, riuscendo a vivere momenti di svago del tutto liberi dal pensiero professionale e vivendo il lavoro non come un fine in se stesso ma come un mezzo per realizzarsi.
Alcuni studiosi hanno provato a definire il workaholism in termini oggettivi, ad esempio in numero di ore lavorate al giorno o alla settimana, ma tale ricerca di parametri obiettivi può risultare fuorviante e poco significativa. In realtà, l'ubriaco di lavoro è una persona che fa sempre e costantemente molto di più di ciò che dovrebbe fare, prescindendo assolutamente dalle richieste esterne e da motivazioni razionali.
Nel soggetto però sono ben riconoscibili queste 3 caratteristiche:
A questi comportamenti si associano spesso:
La sua condotta è univoca, irrazionale, compulsiva, eccessivamente sostenuta da un investimento emotivo monodirezionato nei confronti del lavoro. In sostanza, egli è spinto da un bisogno interno che non lascia scampo.
Come ho cercato di evidenziare in un mio recente libro (Malati di lavoro - Cos'è e come si manifesta il workaholism, 2010), credo che questa nuova malattia della modernità sia da collegare strettamente al sistema di valori nel quale oggi è immersa la società occidentale, e alle numerose e variegate “patologie organizzative” (Castiello d’Antonio, 2011, 2013) che rendono così spesso il luogo di lavoro un ambiente assolutamente inumano.