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A livello terminologico si utilizzano, oggi, diverse denominazioni oltre a quella, per noi italiani, classica, di mobbing. Le forme di violenza esercitate da un superiore su un inferiore sono definite bossing - da to boss: comandare, ma anche spadroneggiare - mentre in lingua inglese si preferisce utilizzare i termini di bullying (il nostro bullismo, un termine che è oggi soprattutto utilizzato nel contesto scolastico e delle bande giovanili), e di bullying at work (che denota i cosiddetti aggressori da ufficio).
Secondo Leymann, si ha mobbing quando uno o N individui effettuano atti comunicativi ostili e non etici contro un individuo che viene spinto verso una situazione di debolezza e lì mantenuto dal susseguirsi delle azioni ostili.
La frequenza delle azioni ostili deve essere di almeno una volta alla settimana e l’aggressione, per essere definita mobbing, deve durare più di sei mesi.
Leymann ha distinto quattro fasi.
La vittima di mobbing tende naturalmente a lavorare meno e con un livello di prestazione inferiore, tende ad assentarsi dal posto di lavoro, commette errori nello svolgimento delle attività, interpreta in modo distorto l’insieme delle regole e delle condizioni di lavoro cosa che, circolarmente, la conduce a non rispondere in modo adeguato all’assegnazione dei compiti professionali.
Anche il mobber tende a evidenziare un cambiamento nelle sue prestazioni in quanto occupa una parte del proprio tempo e delle proprie energie mentali nella gestione del conflitto e nell'attivazione delle strategie.
Desideri maggiori informazioni sul fenomeno del mobbing? Leggi la mia pubblicazione sul mobbing che si verifica sul luogo di lavoro, nel contesto organizzativo e nelle relazioni interne tra colleghi, capi e collaboratori da cui sono state estratte le definizioni sopra descritte.