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WHAT LIES BENEATH
Ecco, finalmente, un libro in cui non si parla di come si dovrebbe fare, bensì di cosa si è realmente fatto nell’ambito della consulenza di gestione e sviluppo delle risorse umane. O, più precisamente, nel contesto del mitico OD, l’Organizational Development, esploso ormai molto tempo fa, divenuto ben presto una parola d’ordine (e anche una moda), caduto progressivamente nel dimenticatoio, fino al punto che, oggi, pochi ne parlano o ne scrivono. I due autori di questo libro, invece, l’Organizational Development lo applicano, lo vivono, e lo fanno in modo pratico e semplice, senza troppe teorie astratte o elucubrazioni, adattando l’intervento di consulenza al contesto e agli scopi definiti con il committente.
E poi il sottotitolo – Come realmente lavorano le organizzazioni – proposto senza il punto interrogativo, in modo di significare: “Ecco, ora vi diciamo, dal nostro punto di vista e in base alle nostre esperienze, come davvero si muovono le organizzazioni!”.
Leggendo questo libro mi è tornato in mente un vecchio articolo di J. P. Kotter, What leaders really do? (Harvard Business Review, 3, pp. 103-111, 1990) in cui l’autore invitava il lettore a vedere la faccia reale della leadership al di là dei tanti e meravigliosi modelli di leadership, perlopiù inapplicati o inapplicabili nelle realtà di lavoro.
In sintesi, il libro rappresenta un viaggio, un viaggio alla scoperta di otto situazioni di consulenza organizzativa collocate in contesti di lavoro assai diversi fra loro e in città che vanno da Mumbai a Milano, da Rio de Janeiro a Parigi. Otto organizzazioni che chiamano i professionisti ad intervenire, aprendo così le porte all’intervento di consulenza che non si rivelerà mai semplice e lineare. Emergono fin da subito le ambivalenze del committente – che vuole sapere e non sapere, essere confermato nel suo modo di vedere le cose ma anche essere arricchito con altre prospettive – e spesso il consulente si trova invischiato in situazioni che solo a posteriori diverranno chiare. Situazioni caratterizzate da collusioni inconsce, da deragliamenti del sistema organizzativo che coinvolgono anche i consulenti portandoli lontano dal loro obiettivo e facendogli infrangere il contratto stipulato con l’organizzazione cliente.
Tutte “cose” che capitano, e capitano spesso, nella vita reale del consulente, ed ecco emergere uno degli aspetti intriganti del testo. A valle di ogni capitolo, dedicato a ciascun intervento di consulenza presentato dal punto di vista di uno dei due autori, si apre lo spazio della supervisione – qui definita multivisione, ma in sostanza il tema è lo stesso. La supervisione è portata sotto forma del dialogo tra il consulente che ha effettuato l’intervento e l’altro autore, passaggio che apre uno spazio utile al lettore per riflettere su ciò che è accaduto (vedi i paragrafi What next? collocati dopo quelli dedicati alla Supervision conversation). Ecco, dunque, l’opportunità di leggere i dialoghi tra supervisore e supervisionato che si aprono con parole come “la mia domanda è: cosa non ho colto, di cosa avrei dovuto rendermi conto?” (p. 60).
Tra le otto storie (resoconti che si possono leggere davvero come storie, come narrazioni), tutte interessanti, ne emergono alcune. La consulenza svolta presso una banca londinese in cui il consulente è dapprima sedotto dal committente (adulato, fatto oggetto di grandi complimenti) per poi ritrovarsi da solo a combattere una battaglia contro l’indifferenza generale, scoprendo inoltre cose di cui tutti avevano sottaciuto, come l’alto turnover del personale e una precedente consulenza i cui esiti non sono affatto chiari.
Nelle autocritiche dei consulenti tornano più volte riflessioni sul rischio corso per non aver dato retta alle proprie intuizioni (al feeling) sulla confusione ingenerata da input divergenti, sulla facilità con cui si perde l’obiettivo primario dell’intervento andando per vie secondarie, sulle difficoltà di coinvolgere realmente soggetti che si dileguano, non si presentano nei comitati di analisi o esprimono lodi nel gruppi di discussione per poi demolire l’intervento nei report successivamente scritti. Tutto ciò emerge non solo nei resoconti e nelle riflessioni individuali a valle degli interventi, ma anche nelle domande nette e chiare che i due autori si rivolgono l’uno con l’altro nella sezione dedicata alla supervisione.
Più in generale, le tematiche che sono qui affrontate sono quelle della cultura e della transizione organizzative, delle emozioni di incertezza, ansia e abbandono che possono provare i leader in collegamento allo sviluppo delle relative difese, dell’emergere di conflittualità e di scontri basati sull’invidia e su antiche rivalità. Con tutto ciò, e altro ancora, si confronta il consulente, spinto a permanere nello stato di non sapere, non conoscere, ma anche a ri-conoscere la propria vulnerabilità e la facilità con la quale può incorrere in bias di vario genere.
Come diviene chiaro nelle pagine di questo libro, alcune dinamiche organizzative possono davvero rendere ciechi gli attori aziendali non meno che i consulenti chiamati a far luce.
Anche se questo testo non è e non vuole essere un libro teorico, accademico, didattico, almeno due segnali importanti stanno ad indicare qual è il punto di vista degli autori e la sottostante matrice teorica. Il primo segnale è nella Prefazione a firma di Vega Zagier Roberts. I meno giovani dei lettori non possono non ricordare un testo che a suo tempo fece epoca, quello di Anton Obholzer e Vega Zagier Roberts, L’inconscio al lavoro. Stress individuale e organizzativo nei servizi alla persona (Etas Libri, Milano 1998), di cui di recente è comparsa una nuova edizione (Vega Zagier Roberts è una persona importante nel panorama della psicoanalisi applicata alle organizzazioni e molto si deve ai suoi contributi che coprono, ormai, vari decenni).
Il secondo segnale è collocato nei riferimenti impliciti al lavoro di Wilfred Bion e a rare citazioni tratte dai suoi scritti, riferimenti che sono apprezzabili soprattutto nel momento in cui le dinamiche dei gruppi gestiti dai committenti (che, in genere, sono alle dirette dipendenze dei CEO e dei responsabili HR) sembrano avviarsi verso strade del tutto irrazionali e illogiche (sull’argomento vedi di Edward R. Shapiro, Finding a Place to Stand. Phoenix, 2020). Strade che possono essere capite solo utilizzando concetti sofisticati come, ad esempio, gli assunti di base bioniani.
I due autori possiedono una formazione di base e un’esperienza che sono in parte simili e in altra parte complementari. Ajit Menon ha iniziato la sua carriera in India come psicologo del lavoro e consulente, ed ha occupato una posizione importante presso la London School of Economics e il Tavistock and Portman NHS Trust interessandosi soprattutto del cambiamento culturale e comportamentale.
Trevor Hough è psicologo clinico, executive coach e consulente di sviluppo organizzativo. Dopo aver lavorato come psicoterapeuta a Cape Town ha svolto consulenza in diverse parti del mondo e in particolare in Africa, Asia e India.
Andrea Castiello d’Antonio
Questa recensione è stata pubblicata nel periodico HR On Line, numero 18, Ottobre 2021