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Una delle esperienze tipiche e ricorrenti nella vita professionale dello psicoterapeuta è costituita dal paziente che rinuncia a proseguire i primi incontri, dopo aver iniziato una psicoterapia, in genere con una telefonata nella quale afferma di non poterselo permettere: naturalmente, il riferimento del paziente è al costo che la psicoterapia avrebbe nel bilancio della sua vita e per il suo budget.
Che cosa è accaduto? Come psicoterapeuta si possono fare molte ipotesi.
La prima ipotesi, la più semplice e lineare, è quella di ritenere che la persona che ci ha prematuramente abbandonati non avesse né una vera motivazione, né un sufficiente bisogno di intraprendere il percorso della psicoterapia.
Si sa che la psicoterapia non è per tutti: è necessario avere un certo “coraggio” per intraprenderla, oppure stare “sufficientemente male”. Ma è anche vero che, tutto sommato, ha ragione chi afferma che per fare una terapia psichica bisogna essere sufficientemente “sani”... Altrimenti si interrompe il cammino, a volte dopo aver effettuato un lungo giro per gli studi di vari terapeuti, o non lo si inizia neppure! Appunto. Da qualunque parte si guardi la questione, quel paziente o non era sufficientemente sofferente, oppure stava talmente male che, veramente, non poteva farcela a portare avanti una terapia. Non può permetterselo, proprio così. E’ una spiegazione plausibile.
Ma ecco scattare altre, diverse e varie giustificazioni ed auto-assoluzioni. La migliore, com’è insegnamento classico di una certa mentalità terapeutica d’altri tempi, fa riferimento all’incapacità di quel paziente di stare-in-terapia. Ritornano in mente le cose lette nei testi classici sui "pazienti non analizzabili". Si compra la gatta dentro il sacco, scriveva un secolo fa Sigmund Freud, cioè la diagnosi la si fa in itinere, lungo l’intera terapia, oppure non la si fa proprio, perché – molti pensano - è inutile nei migliori dei casi, e in tutti gli altri è fuorviante, difensiva, dannosa per la relazione.
Ecco emergere l’altro lato della faccenda, la seconda via, il prendere su di sé l’intera responsabilità, forse la colpa, per aver mancato l’aggancio con quel paziente. Superficialità, eccesso di sicurezza, scarsa concentrazione, poca attenzione a quanto andava dicendo, - forse si è accorto che in un dato momento non lo stavamo ascoltando- ? Avrà mica pensato a quella famosa battuta, o vignetta, sull’analista che dorme mentre il paziente parla? Oppure, ecco, questo può essere un dato che è anche oggettivo: l’onorario. Abbiamo sbagliato a fissare l’onorario, dovevamo stare più attenti alle possibilità reali di quella persona e dimensionare l’onorario sulle sue capacità di impegnarsi in una spesa mensile che non è uno scherzo. Sì, però, ma come si fa nel giro di poche decine di minuti a stabilire un onorario “giusto”?
La psicoterapia è una faccenda delicata, e lo è fin dalle primissime battute, fin dalla prima telefonata, sms, o email del potenziale “paziente” a un più o meno sconosciuto “terapeuta”.
Può essere davvero difficile decidere di affidarsi a una persona estranea… Eppure, questo primo passo è spesso l’unica strada per tentare di vivere meglio! Perché non provare?
Sintesi rielaborata dell’articolo di Andrea Castiello d’Antonio pubblicato in IL RUOLO TERAPEUTICO, numero 107, gennaio 2008, dal titolo “Non me lo posso permettere…”.