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Sarà forse stato perché il 2024 è l’anno del centenario della nascita di Franco Basaglia, fatto sta che ho ripreso in mano Per le antiche scale. Una storia e l’ho riletto, con piacere, a distanza di 52 anni dalla prima (e unica) volta che lo avevo letto.
Infatti, questo libro dello psichiatra-romanziere Mario Tobino, dal sottotitolo Una storia, uscì nel lontano 1972, pubblicato da Arnoldo Mondadori.
52 anni fa significa 6 anni prima della promulgazione della famosa Legge Basaglia (13 maggio 1978, n. 180).
È un libro che consiglio soprattutto a tutti i giovani psichiatri e, comunque, agli operatori della salute mentale che per età anagrafica non hanno fatto esperienza… del “Manicomio”.
Proprio il manicomio come era una volta, come anch’io l’ho frequentato e conosciuto, qui a Roma, al Santa Maria della Pietà – una città nella città. In quei tempi “c’era il mistero della psichiatria, le parole arcane di schizofrenia, paranoia, catatonia rendevano magico il potere di chi ne possedeva la chiave. Il medico di manicomio era imperatore dui malati, a suo unico giudizio li faceva legare oppure no, li curava nei modi più strani come tenerli per giornate intere, per mesi, immersi in vasche da bagno” (p. 28).
Un tempo eroico, per come lo descrive Tobino, un tempo in cui si dibattevano le idee dei maggiori esponenti dell’epoca, primo fra tutti Kraepelin, e molte opere, molti importanti trattati erano da studiare in lingua tedesca o francese – ancora l’inglese non aveva preso il sopravvento. Ma, in manicomio, “non che ci fosse molto da fare, i pazzi erano rinchiusi e vigilati, le cure poche e empiriche. Però chi voleva aveva eccome da studiare” (p. 32-33).
Curioso che in queste pagine Tobino faccia più volte cenno polemico ed ironico agli psichiatri che pubblicavano tanto, tantissimo ma… per i concorsi. pubblicavano scritti che definiti pregiati, addirittura preziosi, ma in fondo inutili! E il pensiero corre al Basaglia che rinunciò alla cattedra per andare proprio a lavorare nel manicomio – ma, posso aggiungere, di aver conosciuto alcuni grandi psicoanalisti italiani che, similmente, rifiutarono incarichi universitari proprio per dedicarsi alla clinica: che, in parole povere, significa dedicarsi ai pazienti!
E Mario Tobino, a suo modo, con la sua visione della psichiatria e della cura dei malati psichiatrici, ha percorso una strada simile.
Essendo anche affascinato, in certo senso, da queste strane, incredibili, sorprendenti manifestazioni del cervello / mente / psiche umane. “A quel tempo la follia non era ovattata, dissimulata, intontita, mascherata, camuffata come oggi con gli psicofarmaci” (p. 41). Chissà cosa direbbe, oggi, Tobino, un tempo in cui gli psicofarmaci (peraltro elargiti a piene mani nel sistema penitenziario perlopiù per il solo fine di controllo) sono così diffusi in tanti strati della popolazione, mentre la psichiatria biologica ha da tempo preso un grande spazio soprattutto a danno delle impostazioni psicodinamiche.
“La follia esplodeva uguale a un vulcano. Nei cameroni – nudi o malamente coperti da una camicia sdrucita – urlavano i matti, in parte legati con le cinghie ai braccioli del letto. Le risse tra loro frequenti, le aggressioni agli infermieri giornaliere. Le pareti squallide, color dell’osso morto; i tavoli inchiodati al pavimento; le finestre con le sbarre, le porte chiuse a tre mandate. Nel silenzio della notte arrivavano i lamenti, le sorde imprecazioni, i suoni di bestiale disperazione” (p. 41).
Sono due i capitoli che mi hanno colpito nel (ri)leggere questo romanzo di Mario Tobino.
Il primo è “Negazione e immortalità”.
Narra dell’arrivo in manicomio di un “paziente” speciale, nel vuoto di una delle domeniche fasciste descritte all’inizio del capitolo: mentre il giovane psichiatra Anselmo è di guardia, ecco che viene accompagnato in manicomio nientedimeno che un Federale.
L’agitazione corre per i corridoi, tutti sono avvertiti ma anche attoniti, stupiti, eppure è così, il Federale delira… dice che non c’è nulla, che il fascismo non c’è, che è tutta una montatura!
Nei giorni seguenti vanno a rendergli visita il Vice Federale, che va via sconsolato, rimarcando ad Anselmo che è lì, ma solo in visita privata, che la riservatezza deve essere totale. E poi arriva a visita anche la moglie del Federale, accolta anch’ella con scherno e disprezzo dal paziente: “Inutile che tu ritorni. Sei meno di tutto. Il mondo non c’è, e figurati se proprio tu!” (p. 165). E poi, alla fine, in un bombardamento nel pieno della Seconda guerra mondiale, scambiando il manicomio per un obiettivo, sono state sganciate delle bombe e una aveva colpito proprio il reparto ove era custodito il Federale.
Così scomparve lui e il suo… delirio: “i parenti sono stati avvertiti; non verrà nessuno. Da tempo l’avevano abbandonato” (p. 174).
L’altro capitolo che voglio qui ricordare ha titolo “Anselmo ha paura e si sbaglia” ed è quanto mai attuale.
In un tempo in cui nel manicomio i pazienti potevano girare liberi – “non c’è più coscrizione. Molti malati circolano da un reparto all’altro, vanno a trovare un amico… passeggiano per i viali dell’Istituto; alcuni escono fuori, arrivano perfino in città, si mescolano agli altri cittadini” (p. 119) – c’è una donna, una paziente che Anselmo conosce bene, l’ha incontrata la prima volta anni addietro, su cui si deve decidere circa la pericolosità. Alla fine, dopo averci parlato, essersi consultato con le infermiere, Anselmo decide di farla trasferire nel reparto chiuso, ma ben presto ci si accorge che un’altra donna, la Ernestina, che viveva accudita dalla paziente ora rinchiusa, sta male, si agita, è difficilmente contenibile.
Ed ecco che Anselmo decide di riportare la paziente nel reparto libero: “Mi sono sbagliato… Anselmo si sente placato. Le caselle della follia si sono riordinate” (p. 129).
Ed ora due parole su due argomenti diversi.
Il primo è: RILEGGERE I LIBRI LETTI DECENNI FA.
Oggi che ho 70 anni mi capita con sempre più frequenza di ri-leggere libri.
Intendo qui libri di psicoanalisi, psichiatria, psicologia clinica, ma anche altri, di argomento psicosociale, di psicologia delle organizzazioni, di psicologia della leadership, per finire con sotto-temi a me cari come il mobbing e le forme di violenza nel lavoro (verso metà 2024 è in programma la pubblicazione di un mio libro su questo argomento, con l’editore Hogrefe di Firenze), il workaholism, la psicologia dell’aviazione, e altro ancora.
E, dunque, rileggendo questi vecchi testi (alcuni studiati all’università!) non si fa altro che scoprire e ri-scoprire affascinanti idee, percorsi e concetti.
È incredibile come leggere uno stesso libro a distanza di decenni conduca a interpretare e gustare quelle pagine in un modo del tutto nuovo, con nuovi collegamenti ed emozioni, collocando quel testo in prospettiva storica ed evolutiva (cosa che, quando si lesse la prima volta, magari 40 anni fa, non si poteva del tutto apprezzare).
Il secondo argomento riguarda il “chi è stato” MARIO TOBINO.
Nato Viareggio il 16 gennaio 1910, dopo turbolenti studi liceali e l’inizio di una grande passione per la letteratura, si iscrive a Medicina a Pisa, trasferendosi poi a Bologna, università in cui si laurea nel 1936. Dopo aver espletato il servizio militare, torna a Bologna e si specializza in neurologia, psichiatria e medicina legale (in questi anni pubblica raccolte di poesie), recandosi poi ad Ancona e a Gorizia. Dal 1940 al 1942 è in Libia, come ufficiale medico, al seguito delle truppe; ferito, rientra in Italia e inizia la sua carriera ospedaliera, prima presso il manicomio di Maggiano, vicino Lucca (sul manicomio di Maggiano v. https://www.youtube.com/watch?v=LwoGekYZXJg
Tra il 1940 e il 1950 Tobino pubblica molto – poesie e romanzi – continuando a gestire il ruolo di primario psichiatra nel manicomio (1948), fino a Le libere donne di Magliano (1953), un affresco completato con Per le antiche scale, del 1972, con il quale, già essendo un autore noto, apprezzato e premiato, vince il Premio Campiello.
Nel 1977 riceve il premio Freud per la letteratura (anche Anna Freud, Eduardo De Filippo e Claudio Abbado sono premiati in quell’occasione), ed è nominato grand’ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica.
Muore ad Agrigento l’11 dicembre 1991, ove si era recato per ritirare il premio Pirandello.
Andrea Castiello d’Antonio