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OPEN SPACE

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Molto è stato detto e scritto sull’open space (l’open plan degli architetti d’interni), le “nuove” formule che le organizzazioni hanno abbracciato per dislocare le persone al lavoro nelle loro postazioni.

Come molte cose, al sorgere dell’open space vi sono stati entusiasmi e grandi resistenze. Alla fine ha prevalso chi vedeva negli spazi aperti, da condividere, una buona proposta logistica, anche per il risparmio di spazi, per la semplificazione dell’ambiente, per l’auspicata migliore comunicazione tra colleghi.

Oggi, quando osservo un open space, vedo persone che si sono dislocate in maniera un po’ eccentrica – ma solo chi ha potuto farlo, naturalmente – allo scopo di evitare di stare nel bel mezzo del caos; altri hanno tirato su una sorta di muretti personali ed artigianali per delimitare un minimo il proprio spazio vitale; altri ancora, se possono, arrivano muniti di cuffie e si isolano perfettamente dall’ambiente intorno.

Chi è al di fuori di queste e poche altre categorie, condivide rumori, odori e visioni (si spera, realistiche), e fino a che le cose vanno bene, tutto sommato, si può sopportare. Ma Henry-René-Albert-Guy de Maupassant, parlando del matrimonio ha scritto: “Giudico il matrimonio uno scambio di cattivi umori di giorno e di cattivi odori di notte”.

Il “matrimonio aziendale” può portare a situazioni simili?

Nell’open space è possibile vivere momenti di cattivi odori, di suoni disturbanti, di emozioni non proprio brillanti magari quando il solito collega che necessita di qualcosa ti arriva alle spalle di colpo, appoggiando una manona sulla tua spalla, e sibilando la sua richiesta al tuo orecchio…

Ma, dicono alcuni, forse con l’open space la produttività aumenta.

Cosa assai incerta, in realtà, visto il disturbo che arrecano le fonti appena dette – variabili intervenienti, si potrebbe definirle.

Interrompere il lavoro aumenta la produttività?

Essere concentrati nell’elaborare una pagina Excel e, nel contempo, ascoltare due-tre colleghi che parlano di come lanciare un prodotto aumenta la produttività?

Stare con le orecchie e la testa in una telefonata delicata e avere dietro di sé persone che vanno e vengono, parlando a voce se non alta, almeno normale, aumenta la produttività?

Forse la risposta sarebbe affermativa se il mitico multitasking rappresentasse qualcosa di più di un – appunto – mitico feticcio.

Ma non soltanto ascoltare dialoghi centrati su oggetti concreti, su tematiche di lavoro, crea disturbo. Anche ciò che è definito brusìo, rumorosità di fondo, discorso irrilevante, scambio di battute, parlare del più e del meno (sì, può capitare anche sul lavoro – l’essere umano non è una macchina!) può distrarre.

In effetti, la capacità di rimanere concentrati e di isolarsi dal contesto è molto variabile tra gli umani.

Conversazioni, voci alte, squilli di cellulari e telefoni, rumori dovuti allo spostamento di sedie o materiali di lavoro, rumori di passi… Sembra che essere esposti a stimoli non voluti di questo genere mentre si vuole portare a termine un compito incida anche su alcuni indici fisiologici (ritmo cardiaco, sudorazione) ma sicuramente incide sul tono dell’umore.

Oggi, dopo mesi e mesi di lavoro da remoto, forse tornare negli open spaces potrà essere vissuto come un momento bello e rigenerante, ma forse anche come una dannazione da cui ci si era finalmente affrancati.

Come delimitare i confini degli spazi personali?

Come difendere il Me, dal Tu, dal Voi, ma forse anche dal Noi (il team a cui si appartiene) se tutto è, alla fine, fuso insieme?

Non a caso molte aziende accanto alle grandi sale degli open spaces hanno costruito salottini, cellule ambientali, angoli in cui posizionarsi per telefonare, piani di appoggio protetti dove appoggiare il portatile e lavorare chiudendosi in uno spazio sicuro… Buone alternative per coloro che, altrimenti, per telefonare in modo riservato dovevano recarsi nei corridoi, davanti agli ascensori, sui balconi esterni, oppure scendere ed uscire fuori dall’azienda.

Ma, certamente, nell’era del Covid-19 gli spazi condivisi andranno decisamente rimodulati e ripensati

L’ultimo colpo all’open space viene da una ricerca della Harvard Business School che demolisce l’idea che questo genere di configurazione abitativo-lavorativa possa contribuire a migliorare le interazioni sociali tra colleghi (alcuni dicono che dovrebbe contribuire a migliorare persino la creatività).

Sembra, paradossalmente, che lavorando in open space si preferisca comunicare con i colleghi per mezzo dei device, inviando email o usando le chat. Forse non va di far vedere a tutti che ci si reca da un collega per parlare di qualcosa, e non va di parlare sapendo che chi è lì intorno ti ascolta…

Il digitale, in questo caso, aiuta!

 

Andrea Castiello d’Antonio