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Prendo lo spunto da un breve articolo che ho riletto di recente per spezzare una lancia a favore dei test psicologici che permettono di lanciare uno sguardo al di là della superficie, al di là di ciò che la persona vuole mostrare, e anche oltre ciò che è possibile capire per mezzo di un buon colloquio psicologico.
Sto parlando delle tecniche proiettive e semi-proiettive.
L’articolo che ho riletto è Understanding the Person: the Need to Use Alternative Assessment Methods, pubblicato sul n. 26 dell’agosto 1995 di TOP – THE OCCUPATIONAL PSYCHOLOGIST (The British Psychological Society), scritto da Christopher Ridgeway.
La premessa dell’articolo (scritto 25 anni fa, ma ancora attualissimo) è che per valutare aspetti nascosti della personalità è necessario usare metodi che non siano facilmente manipolabili dal soggetto rispondente: quindi non i questionari self-report scoperti e espliciti, soprattutto se deboli nelle scale di controllo.
E’ quindi necessario muoversi verso le tecniche semi-proiettive e proiettive, come ho ampiamente dimostrato in almeno due miei articoli di qualche anno fa:
Ciò che mi sembra di interesse nell’articolo di Christopher Ridgeway è la sua (sintetica) rassegna sui Sentence Completion Tests, cioè sui questionari delle frasi da completare. Anche su questo genere di prove ho avuto modo di riflettere nel corso degli anni:
Ritrovare l’argomento in un contributo di 25 anni fa mi ha fatto molto piacere.
I test delle frasi da completare hanno origine con il lavoro dello psicologo tedesco Hermann Ebbinghaus di due secoli fa (fine Ottocento), ma a quei tempi, e nei primi anni del Novecento, erano impiegati per “misurare” aspetti intellettivi.
Negli anni Cinquanta questi test hanno avuto un’esplosione e sono diventati comuni negli studi professionali dei clinici, mentre nel corso del decennio precedente, sull’onda della selezione in ambito militare effettuata dall’OSS, i test delle frasi da completare ebbero un posto di rilievo.
Da quel momento in poi essi sono stati impiegati oltre la clinica, nei contesti di assessment organizzativo – ma anche per predire il successo degli studenti che facevano domanda per determinati corsi di laurea.
Molti sono stati gli psicologi che si sono applicati alla definizione, alla standardizzazione e all’impiego di questo genere di test fino a giungere al notissimo lavoro di Rotter e colleghi (vedi in particolare il suo articolo pubblicato in American Psychologist del 1946).
Così, ben presto, i test di completamento delle frasi sono stati annoverati tra i test proiettivi – o, più esattamente, “semiproiettivi”, o “test proiettivi controllati”, come qualcuno si espresse nel 1950. Altri ne hanno parlato come degli strumenti a metà tra le tecniche proiettive e i questionari di personalità.
In sostanza, essi sono stimoli semi-strutturati, e si basano sicuramente sull’ipotesi del meccanismo psicologico della proiezione per il quale il soggetto esprime, in base allo stimolo, i suoi desideri, paure, attitudini e orientamenti personali. D’altro canto, vi è un consenso abbastanza ampio, e direi anche intuitivo, sul fatto che la “potenza” dei test di completamento delle frasi sia minore di quella del metodo Rorschach, del TAT e, aggiungerei, della tecnica di Hans Zulliger.
Tornando all’articolo di Christopher Ridgeway può essere di interesse il fatto che l’autore riporta l’esperienza di aver applicato un test di completamento delle frasi nell’ambito di un DC- Development Center – insieme ad altri test come il GPP, l’MBTI e il CPI – su questo aspetto vedi il mio recentissimo libro:
Non vi è dubbio che in tutte le fasi di assessment delle risorse umane sia necessario impiegare anche strumenti che vadano in profondità come le prove semi-proiettive e proiettive. Allo stesso modo tali prove sono molto utili nelle sessioni di Executive Coaching e di Organizational Counseling.
Andrea Castiello d’Antonio