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Trasgressioni
Trasgressivo e sconcertante, sempre un po' anarchico pur nella sua attentissima e personale rappresentazione del lavoro clinico e dell'attività dello psicoanalista, il principe Masud Khan, figlio del Raja Bahadur Fazaldad Khan, musulmano praticante del Punjab, erede di un enorme patrimonio lasciatogli dal padre, auto-esiliatosi in Gran Bretagna, a Londra, fin dal 1950, inizia la sua attività clinica intorno al 1954; grande amico di Anna Freud e di Donald Winnicott, formatosi attraverso l'analisi e le supervisioni degli stessi Anna Freud e Winniccott, e poi di Clifford Scott, Melanie Klein, Milner e Freeman Sharpe, analista “laico”, la cui vita londinese procede in una grande e lussuosa casa sontuosamente arredata, con il supporto di un ampio personale di servizio (maggiordomo, governante, autista, segretaria). Per due anni interrompe il lavoro clinico per un cancro che riesce a sconfiggere dopo undici interventi chirurgici, riacquistando solo in parte la voce. Sposato con una artista famosissima, dal suo esilio londinese rientra periodicamente in Pakistan per curare gli affari della famiglia e le proprietà terriere.
The Long Wait and Other Psychoanalytic Narratives (Summit Books, N. Y., 1989), è un libro che non vuole insegnare nulla a nessuno, che non propone disquisizioni teoriche né argomentazioni di tecnica psicoanalitica, ma che rappresenta ‑ come indica chiaramente il titolo originale ‑ la volontà dell'Autore di narrare storie cliniche, incontri umani e momenti di vita, propri e delle persone che a lui si sono rivolte come “pazienti”. Eppure anche il titolo scelto per l'edizione italiana è ben significativo e rappresentativo del contenuto del testo, che è, per l'appunto, un continuo trasgredire, andare oltre, collocarsi al di fuori del consueto e del regolamentato, magari con una certa soddisfazione e con ironia, al di là di ogni ricerca del consenso...
Sono qui presentate sette storie cliniche, incapsulate da due brevissimi scritti il cui scopo è quello di introdurre e di concludere il volume; una Bibliografia in cui spiccano i riferimenti alle opere di Winnicott chiude l'opera.
E proprio a Donald Winnicott è pressoché dedicato un intero capitolo (“Quando verrà la primavera”): è il 1969, e da due anni Khan si reca nella casa di Winnicott ogni domenica mattina “dopo essere andato a cavallo” (p. 41) – Masud Khan era stato campione internazionale di equitazione - per discutere insieme del lavoro clinico e portare avanti la stesura del libro Gioco e realtà. Emerge in modo soffice e delicato un piccolo spaccato di vita londinese tra le piogge invernali e la tranquilla privacy della casa e dello studio di Winnicott (in quel tempo già molto ammalato, ma ancora attivo e indomito nel suo lavoro clinico e teorico). Un Winnicott che si rivolge a Khan chiamandolo sempre per cognome e che esprime le sue preoccupazioni per il futuro del giovane collega: “Ti importa tanto di quel che dicono? A me no ‑ Certo, Khan, perchè temo che possano nuocerti quando non ci sarò più” (p. 55).
Il tema del confronto e della critica nei riguardi dei colleghi analisti britannici è tenue ma fortemente continuo nel corso delle pagine del libro.
Parlando con un paziente: “Non mi sorprende che alla Società Psicoanalitica non abbiano voluto il suo insegnamento e la sua preparazione... ‑ Non me ne importa un bel niente! Mi cercano da tutto il mondo. E se anche non fosse così, potrei sempre ritornare alle mie proprietà avite in Pakistan, stia certo!” (p. 156). Fino a giungere ad una critica esplicita del training: “Il regime di tirocinio all'analisi è, senza dubbio, immolazione dell'anima. I suoi sacerdoti hanno complessi rituali e regole di circoncisione. Collezionisti di prepuzi, ingrassano sull'angoscia altrui. Il tirocinio causa l'ablazione dell'energia fallica. Le società freudiane sono tristi accademie” (p. 212).
Sconcertante nella sua pratica clinica, Khan appare sempre vero, autentico e modesto nel raccontare le proprie vicissitudini con i pazienti, compresi i propri errori (cosa assai rara nel mondo delle psicoterapie); anche qui vi è di certo un qualche gusto per la sfida che guida la mano di Masud Khan nell'enfatizzare le proprie reazioni emotive immediate verso i pazienti, fino a riportare frasi ingiuriose ed offensive, momenti di fortissima tensione emotiva, di aggressività verbale manifesta. Khan invita i pazienti e la loro famiglia a cena, si reca nelle loro abitazioni e in quelle di amici o parenti, scrive lettere, prescrive, detta condizioni, tratta in modo ironico, diretto e talvolta autoritario la maggior parte delle persone che compaiono in questo libro ‑ tutte affette da gravi patologie e con alle spalle diversi tentativi di analisi, una delle quali fa scrivere a Khan “solo un Ferenczi poteva affrontare il rischio che comporta la psicoterapia di tali pazienti” (p. 189) ‑. Lo stile attivo e prescrittivo si alterna ad una grande capacità di ascoltare e comprendere, di accogliere la persona e le sue esperienze più disperate, di manifestare i propri sentimenti e le proprie difficoltà al paziente stesso, compresi, appunto, i sentimenti negativi: “Quando penso che un paziente, in quanto persona, ha bisogno che io lo sostenga agendo, cioè gestendo la sua vita privata, io agisco, non sempre in modo saggio, ma mai per mio vantaggio personale” (p. 156).
Al termine della lettura dei sette saggi, si ha l'impressione di un certo orgoglio ferito e di una costante ricerca della rivalsa da parte di Khan, e in tal senso potrebbero essere letti i numerosi cenni alla potenza economica e alla nobiltà della famiglia – “... Io ero un aristocratico, che ero famoso non solo per la qualità del mio lavoro, ma anche per come vivevo e come mi vestivo” (p. 162) ‑. Come si e' detto, il gusto di stare da solo contro tutti potrebbe talvolta aver preso il sopravvento su di una più razionale discussione dei fatti. Khan, che afferma di aver collezionato training analitici con didatti famosi perché agli inizi della carriera gli era utile munirsi di status symbols ‑ in particolare Melanie Klein ‑ sembra enfatizzare la situazione dell'auto-esilio londinese e, contemporaneamente, la critica al carattere nazionale britannico (freddo, distaccato, formale, anaffettivo).
Diverso è il discorso relativo alla pratica clinica; essa viene narrata non per insegnare, anzi spesso con l'esplicita avvertenza di non provarsi a ripetere talune “mosse” ad alto rischio, ma per rappresentare delle storie di incontri con persone sofferenti, in una continua ricerca e sperimentazione. Siamo ben lontani dai resoconti clinici della classica letteratura psicoanalitica, dei quali Khan afferma di poter trarre pochissimo per il linguaggio criptico, asettico e fondamentalmente falso che li caratterizza in massima parte, e in cui la persona dell'analista scompare per lasciare il posto ad una poco credibile rappresentazione di tecnica analitica.
Quando Khan pensa di dover rifiutare un paziente lo fa sulla base di una mancanza di condivisione umana generale, o perché ritiene di non poter apprendere nulla di significativo dall'incontro con la persona: “Non è questione di transfert o controtransfert, ma di vita reale vera e vissuta, che plasma il nostro fato o destino...” (p. 150).
Trasparenza, intuito, sensibilità e sottile capacità nell'applicazione dei principi analitici alla terapia appaiono fare del Principe Masud Khan una personalità terapeutica, particolarmente ben funzionante con certune storie di trasgressione che sono raffigurate nelle pagine di questo libro di fine Anni Ottanta.
Andrea Castiello d'Antonio
Questa recensione è stata pubblicata nel 1992 sulla rivista GIORNALE ITALIANO DI PSICOLOGIA.
Editore Il Mulino, Bologna. https://www.mulino.it/riviste/issn/0390-5349.