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La solitudine è un argomento trattato da tutti i maggiori psicologi almeno in un momento della loro opera scientifica e professionale.
Ma la “solitudine” – il cui significato non è certamente “oggettivo” e quindi sfugge alle tante ricerche basate sui numeri e sulle quantificazioni – credo proprio che presenti tante facce diverse, alcune delle quali possiamo vedere qui di seguito.
L’aspetto che è emerso forse per primo è quello connesso al pericolo di essere soli, o per meglio dire, di sentirsi soli, isolati, persi in un mondo vuoto, privi di contatti e di possibilità di relazionarsi con altri.
Da qui l’invito, soprattutto per le persone “fragili” come possono essere gli anziani, le persone psicologicamente “ferite” o deboli, i cosiddetti malati di mente e, più in generale e più semplicemente, gli psiconevrotici, a costruirsi almeno una piccola cerchia di relazioni dirette stabili ed affidabili.
Un sorta di “base sicura” dalla quale partire e alla quale tornare, che sia di genere familiare, amicale, sociale, professionale, ma che sia comunque ricca di affettività. Di autentica affettività!
Il secondo aspetto della solitudine è molto diverso dal primo sopra detto e sta nella capacità di stare da soli.
È, questa, una capacità che si è andata persa nel corso del tempo e (oggi più che mai) l’essere connessi alle reti virtuali, l’essere oggetto di numerosi “like” nei social, e cose simili, possono rappresentare per diverse persone un elemento importante che irrobustisce il senso dell’”esserci”. In realtà, la capacità di stare da soli e di essere soli con se stessi è una grande capacità mentale ed un sicuro indice di forza dell’Io che gioca una parte importante anche nelle dinamiche della resilienza.
Un terzo aspetto si riferisce alla nostra capacità di differenziare gli stati mentali e le situazioni esistenziali.
Differenziare significa avere la sensibilità personale di discernere la diversità tra un momento contingente di isolamento sociale, un periodo prolungato in cui si avverte il bisogno di stare un po’ da soli, una fase di vita in cui non se ne può più della gente e del parlare con gli altri, fino alla solitudine auto-imposta, oppure imposta dalle nostre incapacità soggettive.
In sostanza, stare da soli non significa sentirsi soli, così come stare in mezzo agli altri può far avvertire quel sottile sentimento di anonimato e di “folla solitaria” noto già agli studiosi mezzo secolo fa.
Per quarto, si deve tenere presente che qualunque situazione personale può essere “scelta” dalla persona, oppure alla persona può essere “imposta” da circostanze e situazioni esterne.
Vi è una grande differenza tra solitudine scelta e solitudine subìta perché non si hanno alternative di vita! Le situazioni in cui la persona sceglie di stare da sola sono spesso connaturate dal bisogno di riprendersi dopo eventi importanti di vita, o di meditare e riflettere prima di agire e prendere decisioni. La condizione della persona che desidererebbe avere amici e contatti ma che non riesce a uscire di casa e incontrare persone – spesso non sa proprio “dove” andare, “cosa” fare, “come” comportarsi – è una condizione di acuta sofferenza.
Vi sono poi casi in cui la solitudine è connessa a determinate condizioni e situazioni di vita e, tra queste, di vita di lavoro, come ho mostrato in un mio articolo dal titolo La solitudine manageriale
La vita di lavoro può in effetti imporre situazioni di isolamento e la sensazione del sentirsi soli, soprattutto quando la persona vive momenti difficili come sono, all’estremo, le situazioni di Bullismo organizzativo e di Mobbing – vedi i miei articoli sul Mobbing
Si deve stare molto attenti al rischio di confondere il non-essere-soli con l’essere-connessi via social.
Ciò che “fa bene” all’essere umano in quanto tale è la relazione diretta, la relazione con l’Altro, la presa di contatto umana, non mediata da alcun devise tecnologico.
Ma la motivazione alle relazioni interpersonali può variare anche notevolmente in relazione alle tipologie di personalità, come del resto ha ben mostrato ormai quasi un secolo fa Carl Gustav Jung nel suo studio sui Tipi psicologici, cioè sugli introversi e estroversi. Nonostante tali differenze individuali non si deve trascurare la realtà del fatto che la maggior parte delle persone che si presentano allo psicologo per iniziare una terapia sono persone esistenzialmente isolate e psicologicamente sole.
Bene, dunque, la presentazione effettuata il 5 Agosto 2017 delle ricerche di Julianne Holt-Lunstad psicologa e docente della Brigham Youth University, che ha proposto una revisione complessa della letteratura sulla solitudine al convegno della APA, la American Psychological Association in occasione della 125° riunione annuale dell’Associazione, sottolineando tutti i rischi della solitudine – vedi la sintesi della sua presentazione So Lonely I Could Die.