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Università. Sistema autoreferenziale e “accademici di mestiere”

Università. Sistema autoreferenziale e “accademici di mestiere”

In questa riflessione mi riferisco alla situazione globale del nostro sistema universitario e alla figura di quelli che si possono definire “accademici di mestiere”, cioè persone dipendenti dalle strutture universitarie statali il cui unico – o principale – lavoro è (sarebbe) quello di lavorare stipendiati dallo Stato per lo sviluppo della didattica e della ricerca.

Salvando i pochi casi e le rare situazioni positivamente esemplari – parliamo di persone degne, che dedicano loro stesse alla ricerca e alla didattica, e parliamo di sistemi accademici trasparenti e meritocratici (quindi di vere e proprie eccezioni nel panorama italiano) - l’università nel nostro Paese è un ottimo esempio di sistema chiuso e autoreferenziale.

Autoriproducendosi nel corso delle generazioni, il sistema premia il conformismo – tanto è vero che i soggetti critici e/o autonomi sono esclusi e vanno ad ingrossare l’area della fuga dei cervelli all’estero – e seleziona per cooptazione basata su logiche familistiche – altro che concorso “pubblico”!.

L’accademia italiana pensa a sé e alla propria sopravvivenza, espandendo il potere e l’area di azione al di là e al di sopra delle reali necessità del Paese. Ne è un ottimo esempio il proliferare di corsi di laurea a sbocchi occupazionali uguali a zero che, però, hanno il pregio di poter assegnare cattedre e direzioni di dipartimenti, fondi di ricerca e “titoli” agli amici degli amici. Degli studenti che si iscrivono, futuri disoccupati, non importa niente a nessuno.

Il sistema accademico rifugge dalle auto-critiche, premia il consolidamento consortile e l’intreccio di rapporti di convenienza e di potere tali da legare insieme più soggetti al fine di condurli, quasi in automatico, verso la stessa direzione. E’ sufficiente fare l’esempio dei concorsi interni e delle commissioni di esame, per come generalmente sono organizzati e condotti – cioè quei concorsi che hanno la finalità di far fare carriera agli accademici di mestiere. 

Va da sé che nessuno si è mai posto il tema di appurare la salute mentale dei docenti che sono scelti dal sistema. Così, è perfettamente possibile che salga in cattedra un “professore” che chiede alle studentesse di passare a casa sua prima di fare l’esame, o una “professoressa” che fa sapere che una donazione alla sua società privata sarebbe cosa apprezzata…

Anche l’aspetto di una minima rispondenza ai canoni di legalità può essere facilmente trascurato in sede di nomina dei nuovi docenti cooptati; probabilmente, in certi sotto-ambienti localistici (in cui mai e poi mai si sarebbe dovuto istituire un corso di laurea, o tantomeno una sede universitaria) l’essere inserito in un circolo malavitoso può essere un ottimo titolo di merito – e, comunque, un “requisito” da trattare con le molle.

In generale, nei singoli ambienti accademici le cose si sanno, le voci di corridoio circolano, e non sono solo gossip ma informazioni accreditabili con elementi oggettivi (volendoli vedere). 

Così si sa molto bene che il tale è salito in cattedra perché ha convogliato nella società privata del suo professore – il dominus, come si dice… - un bel giro di affari; oppure che la talaltra ha il pregevole merito di essere l’amante del barone di turno; o, ancora, perché entrambi – docente-proponente e candidato da valutare – appartengono alla medesima area politica (altro, grande, titolo di merito, nel nostro Paese!).

Le cose si conoscono ma, naturalmente, non si dicono. Si sussurrano tra pochi intimi o si fa finta di nulla. Omertà. Chi vuole fare carriera – o semplicemente rimanere nel sistema – abbassa la testa, finge di non vedere, si adegua e… aspetta il proprio turno per essere miracolato!

La cultura organizzativa della nostra università è questa: baroni e servi. Con poche e brillanti eccezioni. Ma le eccezioni non bastano. La qualità e l’efficacia di un sistema organizzativo complesso si valuta sul sistema, appunto, non sulle punte di diamante. 

Certamente non è facile scardinare un sistema che funziona in questo modo da decenni. E che è, naturalmente, aggressivamente difeso da tutti coloro che ne traggono vantaggio. Ne è un esempio la risposta incredibile di un barone che alla domanda “Come spiega che nella sua università lavorino sua moglie, suo fratello e suo figlio?”, ha avuto l’impudenza di rispondere “Non vorrà mica discriminare i miei familiari solo perché portano il mio nome?”

 

Andrea Castiello d’Antonio