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Valutazione del potenziale. Trasparente o non?

Valutazione del potenziale

Prendo spunto da questo articolo comparso una ventina di anni fa sulla rivista APPLIED PSYCHOLOGY: AN INTERNATIONAL JOURNAL, dedicato a una questione sempre attuale nell’ambito delle impostazioni e delle metodologie dell’Assessment Center.

Quanto (e come) esplicitare alle persone da valutare relativamente alla metodologia, agli scopi, al “meccanismo” della valutazione del potenziale?

Nell’articolo da cui prendo spunto sono riportati due studi i cui risultati sono contraddittori – oltre al fatto che implicano (come spesso accade) soggetti diversi: nel primo caso studenti universitari, e nel secondo caso job applicants.

Detto per inciso, non si capisce perché i ricercatori e gli accademici continuino a fare “esperimenti” (1) con soggetti che sono totalmente distanti dalla realtà (in questo caso gli studenti universitari, che ovviamente non sono candidati in selezione), oppure (2) confrontando gruppi di soggetti che hanno ben poco a che vedere tra loro (come in questo articolo di cui sto parlando).

Inoltre i risultati sono pure discussi in riferimento ad un altro studio che, però, contemplava tipologie di valutazione diverse dal primo…

Insomma, se si vuole offrire qualcosa di realmente significativo a chi opera sul campo, forse varrebbe la pena di smetterla con esprimenti inutili – però pubblicabili sulle riviste “scientifiche” e quindi utili a far carriera nell’accademia…

Comunque, andando oltre queste considerazioni, entrambi gli studi puntano sulla variabile della validità di costrutto, e sul confronto tra le medie dei risultati ottenuti, cercando di rispondere alla domanda “Quali sono gli effetti sui candidati quando si mettono in chiaro le dimensioni di valutazione?”.

Il risultato è assai articolato e come spesso accade in questi casi, una delle conclusioni è “Other research questions remain unanswered…”.

Volendo semplificare l’oggetto del discorso, e lasciando alle spalle l’articolo da cui sono partito, da sempre si confrontano (almeno) due scuole di pensiero.

Chi addirittura “prepara” accuratamente il candidato alle prove di valutazione, e chi convoca il candidato senza nemmeno dirgli di che cosa si tratta.

Due punti estremi su un continuum.

In mezzo vi sono almeno due problemi.

Il più spinoso è il faking, cioè la possibilità che una persona convocata a sostenere un “esame” – in questo caso, una prova psicologica, come è l’Assessment Center – alteri volutamente se stesso per superare la prova, risultando migliore di ciò che è. Se è preparata, naturalmente può farlo più facilmente.

L’altro problema è costituito dal fatto che coinvolgere un essere umano adulto in una sessione valutativa del tutto al buio può innescare un forte peggioramento della sua performance, o comportare addirittura il rifiuto di partecipare alla sessione.

Dai tempi in cui Paul Sackett pose la domanda nel suo articolo del 1987 “Assessment Center and Content Validity: Some Negleted Issues” – ma forse non fu il primo a sollevare il quesito… - fino ad oggi, ciò che è in parte mutato è che con alcune ricerche si è andati a chiedere ai candidati stessi come vedevano la questione. Soprattutto se e come percepivano una maggiore trasparenza al mutare delle condizioni.

Certamente, dal punto di vista applicativo, è incredibile che ancora oggi, in Italia, alcune organizzazioni realizzino la valutazione del potenziale con un minimo di informazione iniziale, e senza dare il feedback post-assessment!

Ma sull’Assessment Center, il Development Center e le altre tipologie di valutazione e sviluppo delle risorse umane ci sarebbe molto da dire: vedi in particolare il mio libro IL CAPITALE UMANO NELLE ORGANIZZAZIONI. METODOLOGIE DI VALUTAZIONE E SVILUPPO DELLA PRESTAZIONE E DEL POTENZIALE e alcune altre pubblicazioni in cui tratto le questioni inerenti la valutazione psicologico-organizzativa di soggetti da destinare a ruolo di responsabilità, che trovi tra i miei libri.

 

Andrea Castiello d’Antonio